Un futuro senza dialisi: una nuova terapia per la Malattia Renale associata al diabete

La Malattia Renale Cronica (Chronic Kidney Disease CKD) è una condizione clinica cronica che consiste nel declino graduale della funzionalità renale. Colpisce circa il 10% della popolazione mondiale, con maggiore incidenza nell’età avanzata. In Italia la prevalenza negli adulti è intorno al 7%. Nelle fasi iniziali questa malattia è in genere asintomatica. Quando compaiono i sintomi, la malattia è in uno stadio molto avanzato: possono includere nausea, vomito, perdita di appetito, debolezza, disturbi del sonno, diminuzione della lucidità mentale, gonfiore a piedi e caviglie.

«La CKD è una patologia complessa, ma le alterazioni patologiche di base, cioè la presenza di albumina nelle urine e la riduzione della funzione di filtrazione renale, sono facilmente individuabili attraverso semplici analisi del sangue (creatininemia) e delle urine (albuminuria)», puntualizza la professoressa Paola Fioretto, Ordinario di Medicina Interna presso l’Università di Padova. «La diagnosi precoce è fondamentale, per prevenire le complicanze e ritardare la progressione verso gli stadi terminali. Se non adeguatamente trattata, questa patologia può portare alla dialisi: circa 50 mila dializzati in Italia, di cui 13 mila sono diabetici. Il 40% dei pazienti diabetici di tipo 2 soffre infatti di Malattia Renale Cronica».

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato di recente la rimborsabilità di finerenone, un nuovo farmaco per il trattamento della Malattia Renale Cronica, allo stadio 3 e 4, associata a diabete tipo 2 in pazienti adulti, in aggiunta allo standard di cura. Il farmaco ha un effetto antinfiammatorio e antifibrotico a livello del rene, cuore e vasi sanguigni e risulta essere complementare rispetto alle terapie attualmente disponibili.

«L’azione mirata di finerenone su infiammazione e fibrosi, quale antagonista del recettore mineralcorticoide, in particolare l’aldosterone, un ormone che causa ritenzione di acqua e sodio con perdita di potassio, risulta complementare rispetto alle terapie attualmente disponibili e dà beneficio nei pazienti con Malattia Renale Cronica, in quanto riduce la produzione di sostanze pro-infiammatorie», conferma la professoressa Fioretto. «Infiammazione e fibrosi hanno un ruolo molto importante nella progressione della malattia, soprattutto nel paziente diabetico: questo meccanismo d’azione completa i benefici dei farmaci che abbiamo finora a disposizione. Le attuali cure, ACE inibitori o bloccanti del recettore dell’angiotensina (ARB) e, più recentemente, l’utilizzo degli SGLT2 inibitori (gliflozine), agiscono principalmente sui meccanismi metabolici ed emodinamici, mentre i processi infiammatori e fibrotici, che giocano un ruolo importante nella progressione della malattia renale cronica, prima dell’arrivo di finerenone, non venivano influenzati da alcuna strategia terapeutica. L’aggiunta di questo farmaco garantisce, quindi, una più completa nefroprotezione e consente di rallentare la progressione della malattia renale cronica associata a diabete tipo 2 e ritardare il rischio di dialisi. L’iperattivazione cronica dei mineralcorticoidi, nella malattia renale diabetica, contribuisce al peggioramento della disfunzione d’organo, con rischio aumentato di ipertensione e insufficienza cardiaca. Attraverso il blocco di questi recettori, finerenone esercita il proprio effetto antinfiammatorio e antifibrotico nel rene, nel cuore, nei vasi, oltre a contrastare anche la ritenzione di sodio ed acqua».

Quali pazienti potrebbero beneficiare di questa nuova terapia e con quali dosaggi? «Le Linee Guida Internazionali raccomandano l’utilizzo di finerenone in prima linea, insieme agli ACE inibitori o bloccanti del recettore dell’angiotensina (ARB) e, più di recente, agli SGLT2 inibitori, nei casi di pazienti con CKD e diabete tipo 2, con albuminuria superiore a 30 mg. Attualmente però la rimborsabilità di questo farmaco è riconosciuta per pazienti con malattia a uno stadio 3/4, con dosaggi di 10/20 mg al giorno. Con l’aggiunta di questo nuovo farmaco si riduce notevolmente la progressione di Malattia Renale e il ricorso alla dialisi. Prima si inizia il trattamento e maggiore è l’efficacia nel ritardare o evitare il ricorso alla dialisi».

Lo studio registrativo FIDELIO – DKD

Pubblicato sul New England Journal of Medicine, questo studio ha valutato l’efficacia e la sicurezza di finerenone verso placebo nel rallentare la progressione della malattia renale cronica e nella protezione cardiovascolare di questi soggetti. «FIDELIO – DKD è un trial multicentico, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, che ha arruolato 5.674 pazienti pre-trattati con la dose massima tollerata di ACE – inibitori o ARB per 4 settimane, in cui si riscontrava albuminuria persistente», puntualizza il professor Luca De Nicola, Ordinario di Nefrologia dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli di Napoli. «Questi pazienti sono stati confrontati con quelli trattati con finerenone (10mg e 20 mg/die) o placebo, per un periodo di di 2,6 anni. L’endpoint primario era il tempo al primo evento di insufficienza renale, riduzione dell’eGFR, 40% rispetto al basale per più di 4 settimane. L’endpoint secondario era infarto del miocardio non fatale, ictus o ospedalizzazione per insufficienza cardiaca e morte cardiovascolare. Un aspetto particolarmente importante, che rafforza i risultati dello studio, è il livello di compromissione della popolazione arruolata: l’83% dei pazienti era a rischio molto elevato e il 15% a rischio elevato. L’endpoint primario è stato pienamente raggiunto, dimostrando un significativo effetto di finerenone sul rallentamento della malattia renale, così come quello secondario, indicatore di una protezione cardiovascolare».

«Il recente trial registrativo FIDELIO-DKD, che ha arruolato un campione rappresentativo di pazienti con CKD negli stadi 3/4, associata a T2D ed albuminuria nonostante la terapia ottimale con ACE inibitori o sartani, ha soddisfatto pienamente le aspettative della comunità nefrologica», ha dichiarato il professor Loreto Gesualdo, Ordinario di Nefrologia presso l’Università degli Studi Aldo Moro di Bari. «Lo studio, ha dimostrato una diminuzione significativa del 18% dell’endpoint primario di morte da causa renale, oltre a un marcato e persistente effetto antialbuminurico. Anche l’endpoint secondario (morte cardiovascolare, infarto miocardico non fatale, ictus o ospedalizzazione per insufficienza cardiaca) è stato pienamente raggiunto dimostrando un significativo effetto di finerenone. Inoltre, lo studio ha dimostrato un ottimo profilo di sicurezza del farmaco». Finerenone ha rivelato, dunque, un’importante capacità protettiva, sia renale che cardiovascolare, in pazienti con CKD associata a diabete di tipo2. E questo giustifica l’introduzione di finerenone all’interno delle ultime Linee Guida delle società ADA (American Diabetes Association) e KDIGO (Kidney Disease Improving Global Outcomes), e del documento di consensus tra queste società. Nel documento di consensus ADA-KDIGO, finerenone entra, dunque, nei protocolli di terapia come “Additional risk-based therapy”, insieme alla prima linea di trattamento. Il fatto estremamente rilevante è che stiamo parlando di una popolazione di pazienti ad elevato rischio, caratterizzati da uno stadio avanzato della patologia (stadi 3 e 4) e da albuminuria persistente (≥30mg/g)».

Oltre all’ambito nefrologico e diabetologico, anche nella prevenzione cardiovascolare, le Linee Guida dell’ESC (European Society of Cardiology) raccomandano, per la prima volta, l’impiego di finerenone. «Con l’introduzione di finerenone nel nostro Paese, siamo lieti di rendere disponibile per clinici e pazienti una nuova soluzione terapeutica in grado di portare un importante cambiamento nella gestione di una patologia così insidiosa come la malattia renale cronica associata a diabete di tipo 2», dichiara Arianna Gregis, Country Division Head Pharmaceuticals di Bayer Italia. «Questo traguardo ci rende orgogliosi, perché entriamo per la prima volta nell’area nefrologica con un trattamento terapeutico unico nel suo genere, dimostrando l’impegno nella ricerca di soluzioni innovative, per affrontare le esigenze insoddisfatte di alcune patologie, fornire un aiuto ai pazienti e contribuire alla sostenibilità del sistema sanitario».

L’importanza dell’alimentazione

Abbiamo visto quanto il ruolo dell’infiammazione sia cruciale nella progressione della malattia renale cronica associata a diabete tipo 2. Quando parliamo di infiammazione, è sempre più diffuso il riferimento a qualcosa che riguarda l’intero organismo. Oggi ci confrontiamo con fenomeni di infiammazione “a bassa intensità”, che però durano a lungo nel tempo. L’infiammazione da cibo, ad esempio, è una realtà appurata. Oltre a fornire i nutrienti necessari per il funzionamento del nostro corpo, ciò che mangiamo può influire anche sulla presenza dello stato infiammatorio nel nostro organismo.
«Nel caso di malattia renale cronica associata a Diabete tipo 2 la terapia farmacologica è fondamentale per noi nutrizionisti», dichiara il dottor Domenicantonio Galatà, presidente dell’Associazione Italiana Nutrizionisti in Cucina. «I nutrizionisti giocano un ruolo importante nella fase di prevenzione, e non solo attraverso la dieta. Io promuovo un metodo basato su strumenti pratici, come la cucina e attività di informazione e divulgazione con cooking show. La partita si gioca in cucina, i cibi che mangiamo, in base a come vengono cotti, possono diventare pro-infiammatori. Ad esempio, alte temperature possono generare idrocarburi, perossidi, prodotti di glicazione avanzata; mentre un pH acido e antiossidanti sono miglioratori. Si apre un nuovo focus, dove non sono solo le quantità a giocare un ruolo nell’infiammazione sistemica, ma anche gli alimenti e le loro qualità nutrizionali. Sono molto importanti le tecniche e gli strumenti utilizzati per la preparazione e la cottura dei cibi. La cucina e la pasticceria sono laboratori di chimica, fisica, nutrizione. Per aiutarci a stare in buona salute, rendendo ancora più efficace la terapia farmacologica, è necessario conoscere i meccanismi che li regolano. Dobbiamo formare le nuove generazioni di nutrizionisti perché assumano questa nuova consapevolezza».

di Paola Trombetta

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