Bianca Balti : “Ho un cancro alle ovaie, ma lo sconfiggerò”

“Domenica 8 settembre sono andata al Pronto Soccorso per un forte dolore nella parte bassa dell’addome: pensavo si trattasse di appendicite acuta. In realtà mi è stato diagnosticato un cancro all’ovaio al terzo stadio”. Esordisce così la 40 enne fotomodella Bianca Balti, volto per anni delle campagne di Dolce & Gabbana, nel suo post su Instagram, scritto dalla stanza dell’ospedale dove è ricoverata. “Ho un lungo viaggio davanti a me, ma so che sconfiggerò questo tumore. È stata una settimana piena di paura, dolore e lacrime, ma soprattutto amore, speranza e forza. Per me, per i miei cari, soprattutto le mie figlie e per tutti voi che avete bisogno di forza, potete prenderne un po’ a prestito da me. Capita nella vita: finora il cancro mi ha dato la possibilità di trovare la bellezza attraverso gli ostacoli che la vita ti mette davanti”.

Due anni fa, come Angelina Jolie, la Balti si era sottoposta a una doppia mastectomia preventiva dopo aver scoperto di avere la mutazione genetica BRCA1, che aumenta esponenzialmente il rischio di contrarre un tumore al seno e/o alle ovaie. Ma in questo caso non ha funzionato, perché, a differenza di Angelina Jolie, la Balti non aveva asportato le ovaie. Per fare chiarezza su questa malattia, in particolare nei casi di portatrici di mutazioni BRCA e capire il senso di un’asportazione profilattica per evitare l’insorgenza di questi tumori, abbiamo intervistato la professoressa Nicoletta Colombo, docente presso l’Università Milano-Bicocca e Direttore del Programma di Ginecologia all’Istituto Europeo Oncologia (IEO).

In questi giorni, in cui ricorre la Giornata dei Tumori Ginecologici (20 settembre), il cancro all’ovaio è balzato alle cronache, dopo le dichiarazioni della modella Bianca Balti di averlo scoperto addirittura al terzo stadio. Cosa significa la classificazione relativa a questi tumori?
«Il carcinoma ovarico è un tumore relativamente raro, ma ad elevata mortalità, che colpisce prevalentemente le donne in età avanzata, con un picco intorno ai 65 anni. L’istotipo più frequente di tumore ovarico è chiamato “carcinoma ovarico sieroso ad alto grado”. Rappresenta il 70% di tutte le diagnosi e purtroppo anche la forma più aggressiva e letale. L’incidenza di questa malattia è lievemente in aumento nei paesi industrializzati e ciò è dovuto principalmente all’aumento dell’aspettativa di vita media nella popolazione generale. In Italia, sono quasi 50.000 le donne affette da carcinoma ovarico. Nel 2022 sono state stimate circa 6.000 nuove diagnosi e 3.600 decessi (non abbiamo ancora i dati per il 2023). Il rischio di sviluppare un carcinoma ovarico nella popolazione generale è di circa 1 donna su 82. Come detto, l’età avanzata è sicuramente uno dei principali fattori di rischio. Tuttavia, il fattore di rischio principale è l’eredo-familiarità, ossia la presenza di mutazioni genetiche – le più frequenti e conosciute sono quelle dei geni BRCA1 e BRCA2 – che predispongono all’insorgenza di vari tumori, tra cui quello ovarico e quello della mammella. Tra gli altri fattori di rischio possiamo annoverare la nulliparità, il menarca precoce, la menopausa tardiva, l’endometriosi e vari fattori ambientali come l’abuso di alcolici e l’obesità. Lo stadio del tumore descrive la diffusione della malattia al di fuori dell’ovaio: lo stadio III significa che la malattia si è diffusa nell’addome e nella pelvi (la parte bassa dell’addome) e/o ai linfonodi retroperitoneali. La sede più frequente di diffusione negli stadi III è il peritoneo, la sottile membrana che ricopre tutti gli organi presenti nella cavità addominale».

Quali cure innovative esistono, soprattutto nei casi di presenza di mutazione dei geni BRCA come ha dichiarato di avere la modella? È un vantaggio o uno svantaggio avere queste mutazioni? È dunque importante fare i test per individuarle?
«Tutte le pazienti con carcinoma ovarico di alto grado devono essere sottoposte al test genetico per identificare la presenza di mutazioni dei geni BRCA 1-2. Siamo oggi nell’era della medicina di precisione e la caratterizzazione molecolare e biologica dei tumori riveste un ruolo cruciale. Il carcinoma ovarico è ereditario nel 10-25% delle pazienti e le mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2 sono quelle più frequenti (70-90% dei casi). La ricerca di mutazioni genetiche nelle pazienti con diagnosi di carcinoma ovarico ha importanti risvolti pratici che possiamo riassumere in due punti principali. Il primo riguarda la paziente stessa e le implicazioni prognostiche e terapeutiche che derivano dalla presenza di queste mutazioni. Le pazienti che hanno una mutazione BRCA sono più responsive alla chemioterapia a base di platino che si usa nel trattamento primario e al carcinoma ovarico. Inoltre, hanno oggi la possibilità di ricevere nuove strategie terapeutiche mirate, le cosiddette “targeted therapy”, come i PARP inibitori, che hanno dimostrato di prolungare in modo significativo la sopravvivenza globale. Inoltre, sempre per la paziente, sapere di avere una mutazione BRCA consente di avviare adeguate strategie di screening e prevenzione per altri tumori, in primis quello della mammella. Il secondo risvolto pratico è a livello familiare, ossia la possibilità di testare la presenza di queste mutazioni nei familiari della paziente e quindi consentire di discutere ed avviare le opportune strategie di screening o prevenzione, come la mastectomia bilaterale profilattica o la asportazione delle tube e delle ovaie nelle donne portatrici sane di una mutazione BRCA che abbiano esaudito il desidero di prole. Nel carcinoma ovarico per molti decenni non abbiamo avuto molte armi terapeutiche. Mentre per altri tumori venivano individuate nuove opzioni terapeutiche, per il carcinoma ovarico sapevamo che la chirurgia aveva – ed ha tutt’ora – un ruolo chiave, con l’obiettivo di asportare tutta la malattia addominale visibile, e avevamo a disposizione la storica doppietta chemioterapica a base di carboplatino e paclitaxel, che rimane tutt’ora lo standard come terapia sistemica. La vera differenza in termini di prognosi l’abbiamo raggiunta recentemente con l’introduzione dei PARP inibitori, una nuova classe molecolare targeted, che agisce interferendo con i meccanismi di riparo del DNA e porta a morte le cellule tumorali. I PARP inibitori (olaparib, niraparib, rucaparib) hanno dimostrato di prolungare in modo significativo la prognosi di queste pazienti, specialmente di quelle che hanno dei tumori con specifiche caratteristiche genetiche, ovvero una mutazione BRCA o un deficit del meccanismo di riparazione del DNA basato sulla ricombinazione omologa, definito in inglese Homologous Recombination Deficiency, da cui la sigla HRD. I dati più a lungo termine di cui disponiamo sono per il farmaco olaparib che è stato impiegato nello studio randomizzato SOLO 1 per le pazienti con mutazione dei geni BRCA 1-2.  Se prima dell’avvento dei PARP inibitori circa il 70% delle pazienti aveva una recidiva entro i 3 anni e la sopravvivenza globale a 5 anni era del 5-20%, oggi le pazienti con mutazione BRCA che ricevono il PARP inibitore olaparib, dopo la chemioterapia a base di platino, hanno una possibilità di sopravvivenza a 7 anni di circa il 70%. Direi che sono dati entusiasmanti. Per cui siamo sicuramente nell’era delle terapie targeted e dell’oncologia di precisione, e finalmente il progresso scientifico, dopo una lunga fase di stallo, è in fermento anche per il carcinoma ovarico».

Bianca si era pure sottoposta a mastectomia profilattica ma, nonostante questo, il tumore è comparso a livello ovarico. Cosa pensa di questi interventi profilattici?
«Sfortunatamente non esistono ad oggi validi programmi di screening per il carcinoma ovarico e questo, insieme all’assenza di sintomi specifici, rende estremamente difficile, quasi fortuita, una diagnosi precoce, quando la patologia è ancora a uno stadio iniziale. I più recenti studi clinici non hanno dimostrato alcun vantaggio nell’eseguire un programma di screening “a tappeto” basato ad esempio sull’ecografia pelvica transvaginale e sul dosaggio nel sangue del marcatore tumore CA125. Pertanto, non abbiamo al momento la possibilità di avviare uno screening per la patologia ovarica, a differenza di quanto vediamo per la mammella, la cervice uterina, l’endometrio, o il colon. L’unica misura di prevenzione efficace che possiamo adottare è la asportazione profilattica di tube e ovaie nelle pazienti BRCA-mutate (o con mutazioni in altri geni predisponenti) che abbiano esaudito il proprio desiderio di maternità. La rimozione di tube e ovaie viene spesso anche discussa e proposta alle pazienti in menopausa che si sottopongono ad una chirurgia addominale per altri motivi e in cui si può discutere con la paziente se rimuovere le tube e le ovaie contestualmente in via profilattica. La mastectomia profilattica previene il tumore al seno, ma non quello dell’ovaio. Pertanto la donna che decide di sottoporsi ad interventi profilattici deve necessariamente eseguire sia la mastectomia profilattica sia l’annessiectomia (asportazione di tube e ovaie)».

In alternativa, quali consigli potrebbe dare per prevenire il tumore all’ovaio? Esistono campanelli d’allarme o cure profilattiche meno invasive di un intervento chirurgico radicale.
«Data l’assenza di screening e l’aspecificità della sintomatologia clinica, la diagnosi iniziale viene nella maggior parte dei casi effettuata quando la patologia è già ad uno stadio avanzato, quando i sintomi diventano invalidanti. Le pazienti possono inizialmente lamentare distensione e senso di pesantezza addominale, dolore pelvico, nausea, sazietà precoce, una maggiore frequenza a urinare, stitichezza, stanchezza. Tuttavia, riconoscere questi sintomi iniziali è estremamente difficile perché sono molto sfumati e ingannevoli. La diagnosi viene generalmente fatta quando la paziente sviluppa masse pelviche e addominali evidenti alla palpazione, un massivo aumento della circonferenza addominale dovuto spesso all’accumulo di liquido in addome (la cosiddetta ascite), difficoltà a respirare, perdita di peso involontaria, per cui si rivolge al medico curante e generalmente l’esecuzione di una ecografia addominale/pelvica e il dosaggio dei marcatori tumorali pongono il sospetto diagnostico».

di Paola Trombetta

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