Ipofosfatasia: è rimborsabile un nuovo trattamento in età pediatrica

«Il primo problema che si è presentato fin da piccola ha riguardato l’apparato dentale. Ho avuto una perdita dei denti da giovanissima: a 20 anni li avevo tutti rovinati. Alcuni cadevano e anche gli impianti non tenevano. È stata una situazione che ha inciso molto nella mia vita, a cui si sono presto aggiunte micro-fratture. Camminando, mi facevano male i piedi, avevo tendiniti ricorrenti, con dolori intensi. Dopo una breve camminata, il giorno dopo dovevo stare a riposo. Il dolore e la frequenza con cui comparivano non potevano essere ricondotti solo alla tendinite. In molti hanno sottovalutato il problema, considerandomi una depressa, una che si lamentava sempre e non sopportava il dolore. Purtroppo la diagnosi è stata fatta tardivamente. Dopo 5 anni di sofferenza, ho deciso di fare una Risonanza Magnetica, perché dalla semplice radiografia non si capiva molto e il medico mi parlava sempre di banale tendinite. Dall’esito della Risonanza Magnetica era emerso che i miei piedi erano pieni di microfratture, tant’è che il medico mi avevo chiesto se praticavo attività agonistica intensa. Da lì mi aveva indirizzato a un centro di riferimento specifico per l’osteoporosi. In un primo tempo sono stata curata per l’osteoporosi. Poi sono comparse anche microfratture alle mani, ai polsi, alla colonna: mi avevano diagnosticato un’osteoporosi molto grave, con divieto di fare sport, di andare in bicicletta. E poi, siccome non riuscivo a risolvere il problema, che è peggiorato con deformazioni ossee, articolari e coinvolgimento persino degli ossicini delle orecchie, con il rischio di sordità, dopo 10 anni il medico ha finalmente deciso di farmi fare un’analisi genetica: all’epoca avevo 46 anni. Nel frattempo ho fatto cure sia per l’osteoporosi che ricostituenti, sostenendo tutte le spese per mio conto. Dopo aver scoperto che soffrivo di ipofosfatasia, una malattia rara ereditaria, causata da carenza di un enzima, la fosfatasi alcalina, che interviene nello sviluppo delle ossa e del sistema muscolo-scheletrico, non ho potuto avere accesso al nuovo farmaco, di cui è stata da poco approvata la rimborsabilità. Speriamo che questo farmaco diventi in futuro disponibile, non solo all’esordio della malattia nei bambini, ma anche negli adulti». È la speranza di Luisa Nico, presidente API (Associazione Pazienti Ipofosfatasia) che ha accolto con entusiasmo la recente approvazione AIFA della rimborsabilità del farmaco “asfotase alfa”, una terapia enzimatica a lungo termine indicata attualmente per il trattamento di pazienti affetti da ipofosfatasia ad esordio pediatrico, entro i sei mesi o, in caso di esordio successivo, dopo i sei mesi, se si manifesta in forma severa.

Con l’aiuto della professoressa Maria Luisa Brandi, Presidente Fondazione FIRMO (Fondazione Italiana Ricerca sulle Malattie dell’Osso), cerchiamo di conoscere meglio la malattia e le possibili cure.

Innanzitutto cos’è l’ipofosfatasia (HPP): quante persone colpisce?
«L’ipofosfatasia (HPP) è una malattia rara ereditaria, metabolica e sistemica, causata da una carenza di attività della fosfatasi alcalina (ALP), un enzima coinvolto nello sviluppo delle ossa e nelle funzioni del sistema muscolare e nervoso. La carenza di questo enzima colpisce persone di tutte le età: può portare ad anomalie scheletriche e non scheletriche, tra cui ossa fragili, deformità delle ossa e perdita precoce dei denti con la radice intatta. Si stima che, nelle forme severe, colpisca 1 persona su 300 mila, ma si tratta di un numero indicativo dato che la malattia spesso non viene diagnosticata o viene diagnosticata in modo errato a causa dei sintomi diversi e aspecifici».

Come si manifesta, a quale età e quali sono i sintomi principali?
«Le manifestazioni cliniche dell’HPP sono estremamente variabili e dipendono dalla base genetica e dall’età di insorgenza. La malattia può manifestarsi già in epoca prenatale e causare anche il decesso in utero del feto, oppure può comparire nei primi sei mesi di vita. L’HPP, quando si manifesta in età adulta, in media verso i 40-50 anni, può avere un decorso clinico meno aggressivo, ma proprio per questo risulta più difficile la diagnosi: fatigue, dolore muscolo-scheletrico, difficoltà di deambulazione, impatto sullo stato emotivo, con ansia e depressione, insonnia e disturbi respiratori, anomalie dentali o perdita dei denti molto precoce e rischio di fratture, soprattutto delle ossa lunghe: sono manifestazioni aspecifiche che rischiano di essere scambiate per altri problemi di salute meno gravi e ritardare la corretta diagnosi. Tutti questi sintomi determinano una scarsa qualità della vita del paziente e dei caregiver perché hanno un impatto elevato in termini di mobilità e attività, con aumentato bisogno di assistenza».

Esistono esami specifici per diagnosticare l’ipofosfatasia?

«L’indicatore fondamentale per la diagnosi è la fosfatasi alcalina (ALP) totale, che nei pazienti con ipofosfatasia risulta molto ridotta. Se i valori di questo enzima sono al di sotto della norma, è opportuno un approfondimento per capire le cause, compresa la possibilità che il soggetto sia potenzialmente affetto da ipofosfatasia. È dunque necessario procedere con esami biochimici: oltre al dosaggio dei livelli di fosfatasi alcalina totale, si effettua quello dei livelli plasmatici di piridossalfosfato (PLP), forma attivante della vitamina B6, e il dosaggio della fosfoetanolamina urinaria (PEA) e del pirofosfato inorganico (PPi). Si può poi procedere con gli esami strumentali, quali la radiografia dello scheletro per la valutazione dell’ipomineralizzazione, delle deformità scheletriche e di pseudo-fratture tipiche della patologia; la risonanza magnetica per valutare cambiamenti nella struttura ossea e segni di infiammazione muscolo-scheletrica e la valutazione dei livelli di densità minerale ossea (BMD). Infine, potrebbe essere necessario anche lo screening mutazionale del gene ALPL. È un test in grado di confermare l’ipofosfatasia quando i dati biochimici e clinici non sono sufficientemente chiari, e permette di distinguere l’HPP da altre patologie ossee che possono presentare sintomi clinici simili».

Quanto può incidere il ritardo diagnostico nella gestione della malattia e nella qualità di vita del paziente e quali complicanze potrebbero insorgere?

«Nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni nella comprensione dell’ipofosfatasia, rimangono ancora significativi ritardi nella diagnosi di questa patologia. Secondo le evidenze raccolte dal Registro Globale dell’ipofosfatasia, che rappresenta il più grande studio osservazionale dei pazienti affetti da HPP, il ritardo diagnostico nei pazienti adulti è di circa 10 anni.  Uno dei principali ostacoli è rappresentato dalla varietà delle manifestazioni dell’HPP che, negli adulti, possono mimare altre patologie. C’è poi una scarsa consapevolezza clinica che porta un mancato riconoscimento dei sintomi: molto spesso i medici non sono in grado di comprendere alcuni campanelli d’allarme che dovrebbero allertare e portare a un’indagine più specifica. La diagnosi tempestiva dell’ipofosfatasia è essenziale per prevenire o ritardare l’insorgenza di complicanze anche gravi. Tra queste possono esserci fratture da fragilità, anche in seguito a traumi minori, che potrebbero causare dolore intenso, disabilità e richiedere interventi chirurgici, con conseguente impatto sulla qualità della vita. Anche la difficoltà nella guarigione delle fratture è una complicanza dell’HPP, che può prolungare il periodo di recupero e aumentare il rischio di altre complicanze. Inoltre, i pazienti possono manifestare dolore cronico, persistente e debilitante, che diventa limitante della capacità di svolgere attività quotidiane e lavorative.  L’ipofosfatasia può anche aumentare il rischio di sviluppare artrosi, una condizione che causa dolore, rigidità e gonfiore alle articolazioni e può peggiorare nel tempo, compromettendo la mobilità e la funzionalità delle articolazioni. In alcuni casi, l’HPP può causare ipercalcemia, un aumento dei livelli di calcio nel sangue, con conseguenti problemi renali, debolezza muscolare».

Abbiamo parlato della recente rimborsabilità da parte di AIFA di un farmaco, “asfotase alfa”. Ci può spiegare di cosa si tratta e qual è il suo meccanismo d’azione?
«È una terapia enzimatica sostitutiva a lungo termine indicata per pazienti affetti da ipofosfatasia ad esordio pediatrico. La rimborsabilità è prevista nel caso in cui la malattia insorga entro i sei mesi di età o, in caso di esordio pediatrico più tardivo, oltre i sei mesi di età, se dovesse comparire in forma severa. Il suo meccanismo d’azione è quello di sostituire l’enzima fosfatasi alcalina e si inserisce direttamente nell’osso, aumentandone la mineralizzazione, perché va a mettere a disposizione il fosfato per completare il cristallo di idrossiapatite, alla base della composizione dell’osso, che è composto appunto di calcio e fosfato».

di Paola Trombetta

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