«Ho cominciato con alcuni disturbi comuni all’intestino (gonfiore, perdite di sangue), che una buona percentuale di persone ha abitualmente. E questo mi ha permesso di conoscere meglio il mio corpo, con la consapevolezza di avere un disturbo e capire se era da sottovalutare oppure da approfondire. In quel caso ho avuto la netta sensazione che ci fosse qualcosa che non andava. Ho iniziato il percorso di diagnosi: dalla ricerca di sangue occulto alla colonscopia, che ha confermato il sospetto di un tumore al colon. Mi sono sottoposta prima a diversi cicli di radioterapia e chemioterapia, per poi procedere all’intervento chirurgico. Per i primi tempi ho avuto anche una stomia ed è stato molto impegnativo gestire gli aspetti legati a questa situazione che compromette la qualità della vita, modificando tutte le mie abitudini, come praticare sport, andare al mare, fare una vacanza: tutto si può fare, ma con dei limiti e delle accortezze non sempre facili. L’importante è avere la consapevolezza che si sta vivendo un periodo di malattia e si devono rivedere le proprie abitudini per mantenere una decorosa qualità di vita. Era quello che cercavo di far capire ai pazienti con cui condividevo le sedute di chemioterapia, ai quali cercavo di dare supporto come psicologa. Ma anch’io ho ricevuto tanta solidarietà da loro, perché la condivisione di una situazione di sofferenza aiuta a sentirsi meno soli».
La testimonianza di Romina Collepiccolo, psicologa e consigliere di Europa Colon (www.europacolon.it) è comune alle oltre 440 mila persone che convivono con una diagnosi di tumore al colon-retto, una malattia che, grazie alle nuove terapie, sta diventando “cronica”. Cinquantamila i nuovi casi all’anno in Italia, un terzo dei quali presenta una forma metastatica: in questi casi la sopravvivenza è in aumento. Lo confermano anche le testimonianze del cortometraggio in tre episodi, diretto da Alessandro Guida, che rientra nella Campagna di sensibilizzazione “Più-Più cura. Più tempo. Più vita”, promossa da Takeda. La ninna nanna della nonna racconta la storia di Gianna, 56 anni, che nello stesso giorno ha avuto la bella notizia che sarebbe diventata nonna e la brutta notizia di avere un cancro al colon-retto al 4° stadio. Grazie al percorso di cura intrapreso, è riuscita a vedere la nipotina e a cantarle la Ninna nanna e spera di vederla crescere nel tempo. La seconda storia L’ora di pausa è quella di Ivo, 61 anni che, appena andato in pensione, ha scoperto di avere un tumore al colon-retto in fase metastatica. Ma contemporaneamente ha trovato Marina, la compagna di vita che ha condiviso con lui questo faticoso cammino e lo supporta come caregiver. Anche la terza storia Una maratona per due, racconta la malattia che ha colpito Guido a soli 30 anni, appassionato di maratona. In questo caso ha dovuto rinunciare alle gare, ma è diventato allenatore del fratello che, a sua volta, è il suo caregiver nella malattia.
Per approfondire le possibilità di diagnosi e cura, abbiamo intervistato la dottoressa Tiziana Pia Latiano, oncologa alla Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (Foggia) e Consigliere Nazionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), in occasione della Giornata della prevenzione del tumore al colon del 31 marzo.
Come avviene la diagnosi di tumore del colon?
«La diagnosi viene effettuata dopo la positività di sangue occulto nelle feci (SOF). In Italia, il Servizio Sanitario Nazionale offre gratuitamente questo programma alle persone tra i 50 e i 69 anni, proponendo ogni due anni questo test. Se il test risulta positivo, si procede con la colonscopia, esame indispensabile per individuare eventuali lesioni precancerose o tumori. Abbiamo due scenari: chi partecipa allo screening, pur asintomatico, per individuare la malattia in fase precoce e chi si sottopone all’esame per la presenza di sintomi intestinali, come diarrea, stitichezza, sanguinamento o dolori addominali. La colonscopia consente anche di rimuovere eventuali polipi, prevenendo l’evoluzione tumorale. Riconoscere e rimuovere i polipi in tempo è essenziale, perché in questi casi le possibilità di cura e guarigione sono molto più alte. Partecipare allo screening riduce la mortalità per tumore del colon-retto del 20-30%, grazie alla diagnosi precoce e alla possibilità di intervenire subito sulle lesioni iniziali. Dopo esame istologico acquisito durante la colonscopia, che conferma la neoplasia, il paziente dovrà essere sottoposto a una Tac di stadiazione per valutare l’estensione della malattia, se limitata all’organo oppure se ha già originato metastasi. Nei tumori del retto c’è da precisare che, insieme alla Tac, va effettuata anche la Risonanza magnetica. Il paziente viene poi valutato da un team multidisciplinare, con figure specialistiche come oncologi, gastroenterologi, chirurghi, radiologi, radioterapisti».
Quali i trattamenti previsti?
«Se il tumore è localizzato a livello del colon, il trattamento di prima scelta è l’intervento chirurgico. Nei tumori del retto, invece, il percorso è più complesso e richiede una valutazione multidisciplinare per stabilire se e quando integrare la radioterapia. Dopo l’intervento chirurgico, l’oncologo leggerà l’esame istologico. In base all’esito, il paziente potrà essere avviato a un trattamento chemioterapico adiuvante. Siamo in una fase precoce di malattia e questo trattamento oncologico contribuisce a ridurre le micrometastasi, cioè cellule tumorali già in circolo ma non visibili».
Come viene gestito il paziente in fase metastatica?
«In questi casi la gestione è più complessa perché il paziente ha bisogno del cosiddetto “identikit molecolare”, ovvero un profilo molecolare che consentirà di individuare eventuali alterazioni dei geni per una “medicina personalizzata”. Un passaggio cruciale è rappresentato dalla caratterizzazione molecolare del tumore, necessaria per individuare le alterazioni genetiche che regolano la crescita e la replicazione delle cellule tumorali. Questo consente di scegliere trattamenti personalizzati più efficaci, con l’obiettivo di prolungare la sopravvivenza e la qualità di vita. Oggi si tende a “costruire” una terapia su misura, utilizzando le migliori armi a disposizione.
Quali sono le strategie per migliorare la qualità di vita di un paziente con CRC in stadio avanzato, considerando sia gli aspetti fisici sia psicologici?
«La gestione di questa malattia è complessa e richiede un percorso di cura continuativo, che tenga conto non solo degli aspetti clinici, ma anche di quelli psicologici e della qualità di vita. Fondamentale è l’approccio multidisciplinare, capace di integrare le diverse esigenze terapeutiche con l’obiettivo di migliorare l’assistenza e mantenere il controllo della malattia anche nelle fasi più avanzate. I progressi terapeutici degli ultimi anni hanno permesso di aumentare la sopravvivenza, migliorare la qualità di vita, insieme alla riduzione dei sintomi. È fondamentale un approccio precoce e integrato che coinvolga nutrizionisti, palliativisti, psicologi, gruppi di supporto e programmi di riabilitazione oncologica, per ridurre ansia, depressione e stress emotivo. Infine, un ruolo centrale è rappresentato dalla comunicazione medico-paziente, che deve essere sempre chiara, positiva ed empatica: solo così il malato può sentirsi protetto, compreso e accompagnato in ogni fase del percorso di cura».
Dagli ultimi dati, si registra un aumento di incidenza di questi tumori nei giovani: come si spiega?
«In Italia, a differenza degli USA dove l’aumento è molto evidente, i numeri dei pazienti giovani sono leggermente aumentati e sono legati a fattori di rischio quali gli stili di vita sbagliati, fumo, alcol, cibi ultraprocessati, poche fibre, poca frutta. È dunque importante una buona prevenzione ed educazione specialmente tra i giovani. Purtroppo in questa fascia d’età, l’adesione agli screening è ancora bassa. È essenziale promuovere campagne di sensibilizzazione per migliorare la partecipazione e garantire un accesso equo agli strumenti di prevenzione, focalizzando l’attenzione sulle fasce di popolazione più a rischio, soprattutto per familiarità».
Nei casi di tumori giovanili, ci sono programmi previsti per la conservazione della fertilità, prima delle terapie chemioterapiche?
«Solitamente questi pazienti giovani vengono presi in carico da un team multidisciplinare, che include specialisti dedicati alla preservazione della fertilità. Negli ultimi anni abbiamo compiuto notevoli progressi: ciò che un tempo era considerato un tabù, oggi è un argomento affrontato con maggiore consapevolezza. Adesso c’è più informazione e i pazienti chiedono loro stessi di poter preservare la fertilità, prima di intraprendere un trattamento oncologico. Ogni paziente vive la malattia in modo personale e unico, con bisogni e priorità differenti.»
di Paola Trombetta