Sono donne, professionisti affermati, giovani, omosessuali o etero: gente comune che conduce un’esistenza nomale, come tante altre. Tuttavia con una particolarità: la loro vita è affetta da HIV, il virus dell’immunodeficienza umana che infetta le cellule CD4, uno specifico tipo di globuli bianchi, fondamentale per la risposta immunitaria dell’organismo. «All’interno della cellula – spiega il professor Massimo Andreoni, Direttore dell’U.O.C. Malattie Infettive e Day Hospital Dipartimento di Medicina del Policlinico Tor Vergata di Roma – l’HIV si replica e usa la cellula per produrre nuovi virus, causando infine la distruzione delle cellule stesse e rendendo le persone infette suscettibili a gravi infezioni e tumori». Fino all’ultimo stadio, quando l’HIV sviluppa la sindrome da immunodeficienza acquisita – l’AIDS – in cui l’organismo diviene incapace di combattere le infezioni che si tramutano a loro volta in eventi potenzialmente letali, il che significa un conseguente aumento del rischio di contrazione di malattie e infezioni, e di morte.
Con l’HIV, oggi in Italia convivono circa 120 mila persone, di cui il 35% sono donne, concentrate per lo più in Lazio, Lombardia e Emilia Romagna contro una percentuale compresa tra il 15-20% di “inconsapevolmente sieropositiva” (portatori cioè del virus senza saperlo) e 23mila con diagnosi certa di AIDS. «Grazie alle nuove terapie antiretrovirali la qualità di vita di chi è affetto da HIV – continua il professore – non solo è sensibilmente migliorata, infatti i rischi che l’infezione degeneri in AIDS sono bassissimi, così come di trasmissione del virus o di sviluppare una resistenza ai farmaci, ma anche le aspettative di vita si sono accresciute al punto da avvicinarsi a quelle della popolazione generale». Sebbene permanga un tallone di Achille tra chi è affetto da HIV: una maggiore fragilità, perché il sistema immunitario è messo a dura prova da un’infezione cronica solo assopita dall’efficacia dei farmaci attuali, ma mai guarita. Ovvero vi è il rischio di anticipare lo sviluppo di alcune malattie tipiche dell’invecchiamento: in particolare patologie cardiovascolari (specialmente ipertensione e infarto con un rischio maggiorato rispettivamente del 43% e del 5%), fratture ossee (aumentate del 50%) e insufficienza renale. Patologie e rischi che possono dipendere e associarsi anche al genere: «Alcune problematiche proprie della donna – aggiunge la professoressa Antonella d’Arminio Monforte, Direttore della Clinica Malattie Infettive e Tropicali, Dipartimento di Scienze della Salute ASST Santi Paolo e Carlo Polo Universitario di Milano – quali le malattie dell’apparato genitale femminile o i tumori dell’utero, nella donna HIV positiva sono molto più frequenti che nella donna HIV negativa, così come le infezioni da papilloma virus. In caso di sieropositività, l’indicazione è dunque sottoporsi frequentemente a pap-test e alla ricerca del papilloma virus. Inoltre è importante il costante controllo dello stato delle ossa, anche con una densitometria, perché in donne con HIV vi è una maggior predisposizione all’osteoporosi, più accelerata e in età più giovane rispetto alle donne HIV negative». Le donne, poi, vivono la malattia diversamente dagli uomini: sono più angosciate nell’affermare la propria sieropositività con il partner; incorrono più facilmente in ansia o depressione, possibile in circa il 26% dei casi; spesso antepongono la cura dei figli e della famiglia alla cura di se stesse e dell’infezione di cui sono portatrici, con un peggioramento sullo stato della malattia e le sue implicazioni. Ad eccezione di un particolare momento della loro vita: quando sono in attesa di un bebè e la volontà di protezione materna fa seguire la cura alla regola, senza sgarrare per timore di nuocere al nascituro. «Oggi tutte le persone HIV positive dovrebbero ricevere la terapia antivirale, anche una donna che desidera la maternità – continua la dottoressa d’Arminio Monforte – a cui è consigliato di parlare con il proprio infettivologo per capire se i farmaci che sta assumendo (ve ne sono solo alcuni) possono essere dannosi per il feto e correggere laddove necessario la terapia. L’indicazione, per la donna, è di fare screening per HIV prima o subito all’inizio della gravidanza, ma qualora dovesse scoprire di essere sieropositiva già in stato interessante, non vi sono rischi per il nascituro. Infatti la terapia in gravidanza presa correttamente, tutti i giorni, abbatte il pericolo di trasmissione del virus da mamma a bimbo». Allora, in funzione dei traguardi terapeutici e di attenzione alla malattia raggiunti, l’obiettivo e la sfida di oggi non è più solo curare bene e proteggere la maternità, ma garantire a tutta la popolazione HIV positiva un invecchiamento di qualità, allontanando la possibilità di sviluppare comorbidità (patologie concomitanti), il cui rischio è più elevato. Partendo da una corretta prevenzione: «Il riconoscimento e la correzione degli stili di vita – continua Andreoni – con l’eliminazione del fumo, la riduzione di alcool e alcolici, l’assunzione di una dieta sana, equilibrata e regolare, e la pratica di attività fisica costante rappresentano gli interventi più efficaci. Fondamentale diventa quindi l’inquadramento clinico del paziente, attraverso la valutazione del rischio globale per una determinata comorbosità e vulnerabilità individuale, utile a individuare casi che possono beneficiare di interventi di prevenzione primaria per patologia non infettiva, stratificando la popolazione in soggetti a rischio aumentato o non aumentato». Aggiunge la Professoressa d’Arminio Monforte: «Fare l’inquadramento e il profilo del rischio del paziente spetta principalmente all’infettivologo, sebbene in alcuni centri ci siano anche team multidisciplinari che seguono i soggetti HIV positivi in maniera complessiva per aiutarli nella gestione di tutte le diverse patologie. Tuttavia è importante che il paziente stesso sia consapevole del suo quadro clinico generale, che include anche il rischio di comorbidità, e che sia proattivo nella partecipazione alla cura».
E proprio per diminuire le probabilità di sviluppo di altre patologie e informare al meglio i pazienti con HIV su come e cosa fare, è nata “HIV: guardiamo oltre”, la prima Campagna internazionale di sensibilizzazione, focalizzata sul tema dell’invecchiamento e delle comorbidità associate, con l’obiettivo di insegnare a gestire correttamente la sieropositività, andando oltre il traguardo di una carica virale non rilevabile e un’alta conta del CD4, oramai raggiunto grazie alle più moderne terapie. La Campagna, realizzata con il supporto incondizionato di Gilead, è attiva in 15 Paesi europei e in Italia è patrocinata da SIMIT (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali), Nadir Onlus, Nps (Network Persone Sieropositive), Anlaids, Asa Onlus, Arcobaleno Aids e Plus Onlus. «E’ indispensabile riavviare campagne sia sulle modalità di trasmissione dell’HIV – conclude Andreoni – sia di screening per tutte le persone che hanno avuto comportamenti a rischio. Questo perché se la possibilità di utilizzare farmaci sempre più efficaci, tollerabili e spesso somministrati in singola pillola giornaliera da un lato ha migliorato sostanzialmente la qualità di vita dei pazienti, dall’altro ha generato anche l’idea che la battaglia contro l’AIDS fosse ormai vinta. Invece, purtroppo, non è così: negli ultimi cinque anni in Italia sono stati registrati stabilmente circa 4mila nuovi casi di infezione soprattutto tra eterosessuali e giovani omosessuali; nella maggior parte dei casi in fase avanzata di malattia». Non è possibile abbassare la guardia, non è possibile non sapere: è necessario guardare oltre la cura e il già noto. Anche attraverso il supporto di nuovi strumenti di informazione, come il nuovissimo portale (www.hivguardiamoltre.it), scientificamente accreditato da spiegazioni e consigli di medici competenti ed esperti, che attraverso “La mia salute” con schede didattiche sulle principali comorbidità, “Il mio profilo” per scoprire il proprio rischio di malattia, “La mia vita con HIV” con testimonianze di chi la malattia la vive e già la conosce, insegna a gestire al meglio il problema e a capire che contro di essa non si è soli. E che la vita ha comunque un futuro.
di Francesca Morelli
NUOVE MOLECOLE ANTIVIRALI, PIU’ EFFICACI E MENO TOSSICHE Molteplici aspettative sono attese da una nuova classe di molecole che sembrano più attive contro il virus HIV, scoperte da un progetto di ricerca tutto italiano a cui ha partecipato al 40% il Dipartimento di Chimica dell’Università di Parma, sotto la guida del dottor Nicola Della Ca’, assieme all’Università della Calabria, di Roma Tor Vergata, all’Istituto di Farmacologia Traslazionale del CNR di Roma e all’Università di Messina e i cui risultati sono stati brevettati lo scorso 4 marzo.
La scoperta, dicono i ricercatori, potrebbe aprire le porte alla creazione di nuovi farmaci anti-HIV – tanto più necessari in assenza di terapie profilattiche o di vaccini che possano curare o prevenire lo sviluppo dell’infezioni – dotati di maggior efficacia anti-virale, minore tossicità e che non inducono resistenza farmacologica. Caratteristiche, queste, che potranno consentire di effettuare trattamenti anche prolungati e con ridotti effetti collaterali. «I test farmacologici condotti in vitro (in laboratorio) – dichiara il dottor Della Ca’ – hanno dimostrato come le nuove molecole presentino un rapporto tra attività anti-HIV e tossicità molto favorevole, anche superiore a quello di molecole antivirali oggi disponibili, quali Etravirina e Ripilvirina». Ecco perché i ricercatori investono ora i loro sforzi nell’avvio di test in vivo sulle molecole ottenute, ma anche in studi per individuare molecole ancora più attive per il trattamento dell’AIDS. Non resta che attendere i nuovi risultati. (F. M.)