Dopo oltre 25 anni dalla scoperta del virus dell’epatite C, si prevede per il 2016 una grande svolta nella cura di questa malattia che colpisce 160 milioni di persone al mondo (quattro volte più di quelle con HIV). In Italia i malati “stimati” potrebbero essere circa un milione e mezzo e l’epatite C è la prima causa di cirrosi epatica (10-40% dei casi) e di tumore al fegato. Per fortuna però l’incidenza della malattia è oggi molto bassa, al di sotto dell’1 su 100 mila soggetti, grazie alla riduzione dei fattori di rischio prevalenti. E’ quanto è emerso al Convegno: “Epatite C: il ruolo di informazione e comunicazione tra progressi della ricerca e vissuto dei pazienti” che ha coinvolto istituzioni, pazienti, clinici, promosso dal Master “La Scienza nella Pratica Giornalistica” (Sgp) della Sapienza Università di Roma e realizzato con il supporto incondizionato di MSD Italia. Nell’occasione abbiamo intervistato Gloria Taliani, Professore Ordinario di Malattie infettive alla Sapienza Università di Roma.
Esistono differenze “di genere” nella manifestazione clinica e nella cura dell’infezione da HCV?
«L’infezione da HCV evolve nella donna in maniera simile rispetto all’uomo fino a che la donna è in età riproduttiva. Poi però, dopo la menopausa, le donne subiscono un rapido peggioramento. Gli estrogeni infatti posseggono un effetto protettivo rispetto al rischio di evoluzione dell’epatite C verso uno stato di fibrosi avanzata o cirrosi. Quindi dopo la menopausa, quando il livello estrogenico di origine ovarica subisce un significativo declino, si osserva una più rapida progressione della fibrosi con peggioramento della malattia. E storicamente le donne rispondono meno degli uomini anche alle terapie tradizionali con interferone e ribavirina, che fino a poco tempo fa rappresentavano l’unica risorsa terapeutica nei pazienti con epatite C».
A queste terapie di prima generazione (interferone e ribavirina), si sono aggiunti nuovi farmaci antivirali che colpiscono direttamente i meccanismi di replicazione del virus. Quali prospettive terapeutiche si prospettano nell’anno appena iniziato?
«Per più di 25 anni, l’unica terapia disponibile per l’epatite C era basata sulla combinazione di interferone, che potenzia i complessi meccanismi di difesa dalle infezioni virali da parte dell’organismo, e di ribavirina, che agisce in modo altrettanto complesso, ma che non rappresenta un farmaco strettamente “antivirale”. Nel 2011 si sono resi disponibili gli inibitori della proteasi di I generazione (boceprevir e telaprevir). Dalla fine del 2014 l’avvento anche in Italia di ulteriori nuovi farmaci antivirali ad azione diretta (DAAs, ovvero Direct Acting Antivirals) ha innescato una vera e propria “rivoluzione” nella cura di questa patologia che oggi si basa sulla combinazione di più farmaci che agiscono su specifici target virali corrispondenti a proteine attivamente coinvolte nei meccanismi di replicazione del virus (proteasi, polimerasi, proteina NS5A). Inoltre, il risultato terapeutico si può conseguire con una sola compressa o con un limitatissimo numero di compresse da assumere per bocca una o due volte al giorno. Nel corso del nuovo anno è previsto l’arrivo di una innovativa e promettente combinazione: grazoprevir (anti-proteasi) ed elbasvir (anti-enzima NS5A),che sarà impiegata in tutti i pazienti con infezione da HCV, inclusi quelli con co-infezioni da HCV e HIV e con cirrosi, ma che ci permetterà di trattare in sicurezza una categoria di pazienti “difficili” i quali presentano, oltre all’epatite C, un’insufficienza renale di gravità anche avanzata e i dializzati, per i quali al momento non esistono opzioni terapeutiche per HCV al di fuori della combinazione interferone e ribavirina».
Si può allora veramente parlare di una “eradicazione” dei virus dell’epatite C? Per quanto tempo deve protrarsi la cura?
«I farmaci antivirali di ultima generazione sono in grado di “eradicare” il virus nel 90-100% dei casi in tempi brevi (8-12 settimane), rispetto alle 24-48 settimane delle precedenti terapie IFN-based. E non solo possono cambiare la storia naturale della malattia di tanti pazienti ma, in prospettiva, potrebbero anche modificare l’epidemiologia globale di questa infezione, limitando in modo significativo la circolazione del virus C nel mondo. Per ottenere questo importante risultato, c’è bisogno di un adeguamento delle infrastrutture di sanità pubblica, di sufficienti fondi da investire nel programma di cura dell’epatite C e di pieno sostegno politico-sociale. E’ inoltre auspicabile che in Italia vengano potenziati i programmi di diagnosi precoce dell’infezione, soprattutto nelle persone che hanno avuto, nella propria storia clinica, esposizione a fattori di rischio: basta un semplice esame del sangue per individuare la presenza del virus e mettere in atto al più presto le cure adeguate. Sarebbe anche auspicabile che l’accesso alle cure fosse uniforme in tutte le Regioni e che i dati ottenuti mediante la compilazione del registro AIFA fossero condivisi per migliorare l’uso dei farmaci ed ottimizzarne l’efficacia nella popolazione italiana».
di Paola Trombetta