Crescono i numeri delle malattie neurodegenerative, destinate a raggiungere nei prossimi decenni cifre allarmanti, complice l’avanzare dell’età media e il progressivo invecchiamento della popolazione. Le ultime stime, diffuse al recente congresso della Società Italiana di Neurologia (SIN) che si è svolto a Genova, attestano, solo in Italia, un milione di demenze, di cui 600 mila riferibili all’Alzheimer, ma anche l’aumento dei casi di ictus cerebrale (250mila ogni anno) che degenerano in 930 mila situazioni di disabilità permanente, pesanti a livello sociale e assistenziale. Indifferentemente, uomini e donne, possono poi essere colpiti da Morbo di Parkinson: oggi i malati sono oltre 240mila, 50mila quelli con forme di parkinsonismo, mentre una persona ogni 1.000, ossia 60 mila nella totalità, potrebbe nell’arco della vita aver a che fare con la Sclerosi Multipla. Una realtà presente e futura che ha richiamato l’attenzione della scienza e della ricerca, al lavoro per trovare “strumenti” e opportunità diagnostiche che scovino la malattia già in fase preclinica, dunque in soggetti apparentemente sani in cui i sintomi non si sono ancora manifestati. Perché arrivare a capire il problema anche in fase precoce, quando i segni clinici sono incerti, sfumati o appena manifesti, nelle malattie neurodegenerative potrebbe essere già tardi e la risposta ai trattamenti inefficace. Allora si punta a rilevare nel sangue o nei liquidi dei marcatori specifici o ancora degli strumenti di imaging, capaci di mettere in luce qualcosa di identificativo della malattia, consentendo di avviare tempestivamente una terapia. Perché, anche sul fronte della cura, oggi ci sono interessanti novità o prospettive che possono rallentare il decorso della malattia e migliorare sensibilmente la qualità della vita.
Il Morbo di Parkinson. L’attenzione è tutta sul sonno. A identificare cioè uno dei principali campanelli di allarme della malattia: il disturbo del comportamento del sonno in fase REM che potrebbe essere predittivo della comparsa, da pochi mesi a circa 20 anni di distanza, del Morbo di Parkinson. «Un semplice esame elettromiografico – spiega il professor Aldo Quattrone, presidente della SIN e Rettore dell’Università Magna Graecia di Catanzaro – effettuato in soggetti sospetti e in fase preclinica, è in grado di distinguere particolari caratteristiche del tremore di risposo, comune a più malattie neurodegenerative, differenziando se sia attribuibile al Parkinson o piuttosto ad Atrofia Multisistemica, Paralisi Sopranucleare Progressiva o tremore essenziale (TE), una malattia molto frequente nella popolazione».
Un’altra importante novità riguarda la diagnosi di una forma di parkinsonismo – la Paralisi Sopranucleare Progressiva (PSP) – difficile in assenza di particolari manifestazioni, come una paralisi verticale dello sguardo, e per questo spesso confusa con il Parkinson vero e proprio. «Oggi, invece, grazie a dei biomarcatori rilevati nel sangue – continua il presidente – si può predire questa paralisi dello sguardo con 4 anni di anticipo, avviando così una corretta diagnosi e una terapia tempestiva».
La malattia di Alzheimer. Fattore discriminante per la diagnosi dell’Alzheimer sembra essere il “Mild Cognitive Impairment (MCI)”, ovvero un disturbo cognitivo lieve caratterizzato da problemi iniziali di memoria, che lasciano autonomia alla persona, e che precedono di alcuni anni la demenza. È ormai noto che base dell’Alzheimer vi è l’accumulo progressivo nel cervello di una proteina (beta-amiloide) che distrugge le cellule nervose e i loro collegamenti. «Oggi è possibile rilevarne l’accumulo con una PET e un particolare tracciante – precisa il professor Carlo Ferrarese, Direttore Scientifico del Centro di Neuroscienze di Milano, Università di Milano Bicocca Ospedale San Gerardo, Monza – oppure nel liquido cerebro-spinale prelevabile con una puntura lombare». Esami, dunque, che possono dimostrare la presenza della famigerata proteina anche anni prima delle manifestazioni della malattia. «La diagnosi precoce – aggiunge ancora il professore – è indispensabile per impostare strategie terapeutiche, attualmente in fase avanzata di sperimentazione, che agirebbero proprio sulla beta amiloide, bloccandone l’accumulo, inibendone la produzione o rimuovendola con anticorpi, modificando così favorevolmente il decorso della malattia».
La Sclerosi Multipla. Sta migliorando la “qualità” terapeutica, perché i classici trattamenti iniettivi, utilizzati da vent’anni a questa parte, potranno essere sostituiti da terapie orali più apprezzate per il loro facile uso, sebbene siano possibili alcuni rischi, fra cui le infezioni da agenti virali. «Inoltre – dice il professor Gianluigi Mancardi, Direttore della Clinica Neurologica dell’Università di Genova – si sta affermando l’efficacia dei farmaci immunosoppressivi (Alemtuzumab) che si assumono solo per cinque giorni il primo anno e tre per il secondo. Se utilizzato in fase relativamente iniziale, il trattamento ha un importante impatto sul decorso della malattia, tuttavia provoca effetti collaterali di frequente riscontro, come lo sviluppo di altre patologie autoimmuni». Nei casi più aggressivi e maligni, o non rispondenti alle comuni terapie, si potrà ricorrere a una intensa immunosoppressione seguita da un autotrapianto di cellule staminali o a una terapia con anticorpi monoclonali, diretti contro particolari bersagli (linfociti B), efficaci sia in caso di ricadute e remissione della sclerosi multipla sia nelle forme primariamente progressive di malattia.
Ictus cerebrale. Il trattamento sarà simile a quello di alcune malattie cardiovascolari e potrà prevedere un duplice approccio farmacologico e meccanico. «Oggi la migliore terapia per l’ictus ischemico in fase acuta – dichiara il professor Elio Agostoni, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e della Struttura Complessa Neurologia e Stroke Unit dell’A.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano – consiste nella somministrazione di un farmaco capace di disostruire l’arteria cerebrale occlusa (trombolisi sistemica). Si sta tuttavia sempre più affermando l’efficacia anche di una rimozione meccanica, in pratica un’aspirazione del trombo». Serve però tempestività, perché per avere successo la trombolisi va effettuata entro le 4 ore e 30 minuti e la tromboectomia entro 6 ore e 30 minuti dalle manifestazioni dell’ictus.
La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA). Si ricercano marcatori di diagnosi precoce, di cui i più promettenti sembrano i livelli sierici e liquorali, fondamentali per dare avvio tempestivo alle terapie che di norma iniziano con un ritardo medio di circa un anno sulla malattia. «Entrambi i marcatori – conclude il professor Adriano Chiò, Coordinatore del Centro SLA del Dipartimento di Neuroscienze, Università degli Studi di Torino e AOU Città della Salute e della Scienza di Torino – hanno un’elevata sensibilità e specificità nel distinguere i pazienti con SLA dai controlli sani». Un grande aiuto nella diagnosi di malattia sta arrivando poi anche dalle neuroimmagini, specie da particolari risonanze magnetiche e dalla tomografia ad emissione di positroni che, nel caso di soggetti portatori di mutazioni di geni correlati alla SLA, sembrano permettere di rilevare lesioni in fase presintomatica. Sta qui, in questo “pre”, la chiave di volta per provare a battere sul tempo le malattie neurodegenerative e la scienza ci sta provando.
di Francesca Morelli