Viene comunemente definita “malattia dei re”, in quanto legata all’alimentazione prevalentemente proteica e quindi molto più diffusa in passato fra le classi dominanti. Ma la gotta è anche “regina delle malattie” per la drammaticità delle sue manifestazioni cliniche. Non la si considera una patologia al femminile, ma è frequente anche nella donna, specie con la menopausa, dopo i 50 anni. Complici di questo “errore di valutazione” sono stereotipi culturali, ormai superati, che hanno da sempre associato questa patologia all’uomo giovane, colpito nel cuore della notte, all’improvviso, da dolori che insorgono all’improvviso e in maniera lenta fino a livelli di insopportabilità, alle articolazioni degli arti inferiori e principalmente all’alluce. Invece, ritenere questa malattia eccezionale nella donna è fonte di gravi errori diagnostici: «La gotta nella donna si manifesta in maniera molto spesso diversa rispetto all’uomo», spiega il professor Walter Grassi, direttore della Clinica Reumatologica e della Scuola di specializzazione in reumatologia, dell’Università Politecnica della Marche di Ancona. «Non con attacchi articolari esplosivi, bensì potrebbe interessare più articolazioni, o camuffarsi da artrite polidistrettuale, o subentrare come conseguenza di patologie preesistenti». Come nel caso di una donna di mezza età che lamentava un dolore acutissimo all’ultima articolazione delle dita (falange distale) che appariva rossa, gonfia e con pelle lucida: aspetto associato dapprima a un’infezione, un trauma o a una puntura di insetto, sottovalutando però il fatto che la donna era in trattamento con diuretici per un’ipertensione. «La comparsa di un dolore articolare intenso in qualsiasi tipo di articolazione, in una persona con queste caratteristiche anamnestiche, dovrebbe subito indurre a pensare a una possibile gotta secondaria o gotta da diuretici. Nel caso di questa paziente – racconta il professore – è stata la prima ipotesi considerata, confermata da un’ecografia che ha messo in luce in modo molto evidente aggregati di acido urico, simili a dei granellini di sale, a livello delle articolazioni, ma anche da esami ematochimici e soprattutto dalla risposta positiva a un farmaco, la colchicina, originariamente estratta dal Colchicum autumnale (zafferano d’autunno), che non è un antidolorifico ma che svolge una azione altamente selettiva nei confronti dell’infiammazione gottosa. La remissione dell’infiammazione e del dolore, dopo somministrazione di colchicina, costituiva un elemento di conferma ulteriore della correttezza della diagnosi di gotta». Ma, insieme a situazioni più tipiche, esistono anche casi particolari: come un dolore gottoso in una giovane donna, 21enne, modella, indotto dall’assunzione smodata di diuretici, erroneamente ritenuti benefici per il mantenimento del peso, ma con l’effetto collaterale di far aumentare a dismisura i livelli di acido urico nel sangue, favorendone il deposito nei tessuti. Il problema della gotta, infatti, risiede proprio lì: in quei microscopici cristalli dalla caratteristica forma di aghi di pino, che possono formarsi per una predisposizione genetica – la familiarità rappresenta il primo fattore di rischio della gotta – su cui possono influire anche componenti ambientali: «Un’alimentazione iperproteica – precisa lo specialista – o un eccessivo consumo di bevande zuccherate contenenti fruttosio o ancora l’uso prolungato nel tempo di alcuni farmaci possono innalzare i livelli di acido urico nel sangue».
Il dolore tremendo dell’attacco acuto di gotta può essere efficacemente controllato, ma non con il fai-da-te, perché il ricorso a un abuso di antidolorifici autosomministrati, specie in persone anziane, può portare a problemi di tipo gastrico, cardiovascolare o a crisi ipertensive. Invece, la prima regola per agire correttamente contro la gotta è la tempestività con la somministrazione, alla comparsa del primo segnale di dolore, di una terapia che risponda a due obiettivi. «Il primo è di tipo tattico – dichiara il professor Grassi – e mira a bloccare il dolore agli esordi con l’assunzione di farmaci giusti al momento giusto, in grado di eliminare l’attacco doloroso ed evitare un’amplificazione dei sintomi. Il secondo obiettivo terapeutico è di tipo strategico ed è rivolto a prevenire l’evento doloroso, mantenendo la soglia dell’acido urico al di sotto di 6 milligrammi/decilitro. In concentrazioni inferiori a questi valori, l’acido urico non precipita dal sangue ai tessuti, ma si scoglie e ritorna nel sangue senza provocare la formazione degli aggregati urici».
La strategia, ancora più che la tattica, nella gotta, è fondamentale e si attua con farmaci che inibiscono la produzione di acido urico. Questa azione è oggi resa ancora più efficace grazie all’introduzione di un farmaco innovativo e rivoluzionario. «Si tratta di Lesinurad, che inibisce il riassorbimento dell’acido urico a livello renale, favorendone l’eliminazione con le urine, con conseguente riduzione della sua concentrazione nel sangue. Recenti studi (Clear I e II) hanno dimostrato che questo farmaco, in associazione con un inibitore della sintesi (allopurinolo), permette di mantenere i livelli di acido urico al di sotto di 6 mg/dl, raggiungendo quindi il target terapeutico, in una percentuale doppia di pazienti rispetto a quanto si ottiene con il solo allopurinolo».
Ma non solo, l’efficacia e la sicurezza di una dose giornaliera di lesinurad in combinazione con febuxostat (un altro inibitore della sintesi di acido urico), rispetto a una monoterapia con il solo febuxostat, è stata confermata anche dallo studio CRYSTAL, durato 12 mesi, multicentrico (ha coinvolto Nord America, Europa, Australia e Nuova Zelanda), randomizzato, controllato con placebo, che ha arruolato pazienti affetti da gotta con tofi, ovvero depositi di cristalli di acido urico nelle articolazioni e nella pelle. «La gotta con tofi visibili – conclude Grassi – è particolarmente difficile da trattare, ma questo studio ha confermato che la terapia combinata riduce non solo l’area del tofo ma può svolgere anche un ruolo importante nel ridurre l’acido urico sierico ai livelli raccomandati dall’American College of Rheumatology e dalle linee guida EULAR, referenti per il trattamento di questa patologia».
di Francesca Morelli
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