C’è la 17 enne che non vuol più andare a scuola, perché le compagne la evitano a causa delle macchie rosse squamose sulle mani e sul collo. E il bimbetto di 6 anni al quale i compagni non stringono la mano perché affetto da psoriasi alle unghie. E la ragazzina 14enne che non va più in piscina perché si vergogna a mostrare le squame rossastre che ha sul corpo. Una vera epidemia… di vergogna, che questa malattia genera, in particolare tra i giovani. E con l’arrivo della bella stagione, il problema diventa più evidente: abiti senza maniche e scollati espongono ancor di più la pelle “deturpata” dalla psoriasi. Ma, allo stesso tempo, il sole rappresenta un toccasana.
«Mi sono esposto talmente tanto al sole per curare la psoriasi che ho rischiato di avere un tumore della pelle», ricorda Paolo Rodolfo Ferrari, rappresentante regionale Veneto, Friuli e Trentino di Adipso, l’Associazione di pazienti con psoriasi, affetto da questa malattia da più di 40 anni. «Da ragazzo ero disperato, anche perché la malattia si era presentata subito in forma grave: all’epoca non esistevano i farmaci che oggi consentono di controllare bene la malattia. Da quando assumo i farmaci biologici di ultima generazione, infatti, la mia malattia è completamente risolta e non ho più bisogno di espormi tante ore al sole!».
Paolo è stato fortunato e rientra nell’8% delle persone che oggi utilizzano questi nuovi farmaci. «I pazienti con psoriasi spesso non sono trattati o sono sottotrattati», fa notare il professor Giampiero Girolomoni, professore di Dermatologia all’Università di Verona, presidente del Congresso Sidemast (Società Italiana di Dermatologia e Malattie sessualmente trasmesse), in corso a Milano. «A non ricevere trattamenti sono il 50% dei pazienti con psoriasi lieve, il 36% con psoriasi moderata e il 30% con psoriasi grave. Nonostante le tante terapie presenti oggi sul mercato, il 41% dei pazienti con psoriasi e il 28% dei loro medici, sono insoddisfatti dei trattamenti. Il desiderio di chi è colpito soprattutto da psoriasi moderata/grave, è di essere libero o quasi da lesioni, con netto miglioramento della qualità di vita. In realtà solo un terzo dei pazienti sono trattati con terapie biologiche che, negli ultimi anni, hanno dato risultati sorprendenti. Oggi però questi farmaci possono essere utilizzati solo in seconda linea, dopo che hanno fallito le altre terapie. E il paziente si ritrova così ad assumere per anni dei farmaci che danno scarsi risultati».
L’unica terapia per la quale è stato richiesto l’utilizzo in prima linea è il nuovo anticorpo monoclonale, secukinumab, inibitore dell’interleuchina17, una citochina infiammatoria presente in elevate concentrazioni nella cute delle persone malate. Il farmaco sembra in grado di controllare l’eccessiva produzione di questa sostanza. Già approvato in Europa come terapia di prima linea, è in attesa in Italia dell’autorizzazione dell’AIFA.
«In questi anni di sperimentazione si è visto che il 70% dei pazienti trattati con secukinumab a 300 mg (sottocute una volta a settimana per il primo mese e una volta al mese come mantenimento) ha ottenuto una risoluzione completa della malattia (PASI, ovvero indice di guarigione, 100) o quasi completa (PASI 90) durante le prime 16 settimane», commenta la professoressa Ketty Peris, direttore della Clinica dermatologica dell’Università del Sacro Cuore/Policlinico Gemelli di Roma. «Nella maggior parte dei pazienti il risultato è stato mantenuto, proseguendo il trattamento, fino alla 52° settimana. Gli studi clinici hanno dimostrato una relazione diretta tra risoluzione completa o quasi della malattia e miglioramento della qualità di vita. L’efficacia di questo farmaco si mantiene nel tempo fino a 2 anni ed è stata confermata da tutti i pazienti. Si tratta di risultati importanti ricavati da uno degli studi più grandi mai condotti su un farmaco biologico (3500 pazienti), per un tempo di 52 settimane. Dallo studio è emerso un netto miglioramento della qualità di vita della maggior parte dei pazienti, di cui il 75% si sentiva poco attraente, il 54% depresso. Al termine dello studio abbiamo visto persone rinascere: la scomparsa delle lesioni cutanee, soprattutto dal volto, ha coinciso con una ripresa fisica e psicologica delle persone che hanno riacquistato la voglia di vivere, di socializzare, di mostrarsi in pubblico».
Se nelle forme più gravi i risultati dei farmaci biologici sono davvero incoraggianti, non mancano novità per le forme moderate/lievi, che rappresentano l’80% dei due milioni di persone con psoriasi. La grande novità di questi anni, tra le terapie topiche, è la combinazione in gel di un derivato della vitamina D (calcipotriolo) in associazione a betametasone, un antinfiammatorio cortisonico di elevata efficacia. Somministrato una sola volta al giorno con una formulazione ben accettata dai pazienti, perché non untuosa come le creme tradizionali, si è rivelata molto efficace e ben tollerata.
«Gli studi clinici dimostrano che questa associazione (calcipotriolo/ betametasone) ha un effetto sinergico che risulta più efficace, con un miglior profilo di sicurezza e tollerabilità sulla lunga durata», conferma il professor Sergio Chimenti, direttore della Clinica dermatologica dell’Università degli Studi “Tor Vergata” di Roma, promotore del Congresso internazionale PsoFuture che si è svolto di recente a Roma (www.psofuture.org ). «Dopo otto settimane di trattamento, si rileva un miglioramento del 75% dell’indice PASI, contro il 61% del cortisonico e il 55% del calcipotriolo utilizzati da soli. Un altro punto di forza di questo trattamento è la monosomministrazione giornaliera che garantisce una maggior aderenza del paziente alla terapia, che non provoca quella sensazione di untuosità di molte creme finora utilizzate».
di Paola Trombetta