Ha lottato tutta la via contro il cancro. Sylvie Menard, oggi 67 enne, ha lavorato per 45 anni nel Dipartimento di Oncologia sperimentale dell’Istituto Nazionale dei Tumori, da ultimo come Direttore del Dipartimento. E da dieci lotta contro un mieloma multiplo, un tumore raro del midollo osseo. Da ricercatrice è diventata paziente e ha provato sulla sua pelle le sofferenze, le ansie, le paure che i malati oncologici vivono ogni giorno. Per questo ha voluto anche scrivere il libro: “Si può curare” (Edizioni Mondadori). Una testimonianza di coraggio e di voglia di vivere che vuole regalare a tutte le donne, nella giornata a loro dedicata.
Cosa ha provato quando le è stato diagnosticato un tumore?
«La mia prima reazione è stata l’incredulità. Stavo bene, senza alcun sintomo e la diagnosi di mieloma è arrivata nella mia vita come uno tzunami. Nel mio lavoro mi occupavo di tumori ogni giorno, ma affrontavo l’argomento in modo asettico, da ricercatrice. Avere un tumore ha significato per me cambiare completamente prospettiva: ero convinta di sapere tutto sul cancro, ma mi mancava l’esperienza di vivere con questa malattia ed ero impreparata ad affrontarla. Anch’io all’inizio, come tutti i pazienti, ero disperata, angosciata, avevo perso la lucidità: all’improvviso tutte le mie conoscenze mediche erano svanite. Mi sentivo impotente e pensavo di non farcela, di dover morire in breve tempo. E vedevo addirittura la morte come una liberazione dalla sofferenza fisica che temevo. Ma poi ho cominciato a ragionare, a recuperare la razionalità, a capire che il mio tumore si poteva “curare”, anche se non “guarire”. Mi sono informata sulle nuove terapie e per fortuna, nel mio caso, ce n’erano tante. Avevo sempre studiato i nuovi farmaci contro il tumore al seno e ora mi accingevo ad approfondire una materia che non conoscevo cosi bene. Mi sono affidata a specialisti competenti che mi hanno subito sottoposto agli ultimi protocolli terapeutici innovativi e ai nuovi prodotti della ricerca. All’epoca iniziavano infatti alcune sperimentazioni con farmaci target, molto efficaci per il mieloma. E ho seguito i nuovi protocolli. A dieci anni dalla diagnosi sono viva e sto bene».
Come hanno reagito i suoi familiari alla malattia?
«Quando ho saputo di avere un mieloma, mio marito era in Cina per lavoro e non volevo comunicargli la notizia al telefono. Ma appena è tornato sono crollata! Da bravo ingegnere ha reagito in un modo molto razionale. Dapprima si è accertato che la mia malattia non avrebbe creato problemi polmonari o pleurici. Sua madre era morta di tumore al seno, con metastasi pleuriche. Scongiurato questo pericolo, mi ha sempre incoraggiata e sostenuta, fiducioso che le nuove scoperte farmacologiche avrebbero funzionato. Diversa invece la reazione di mio figlio 30enne che mi ha dato della bugiarda perché avevo detto che il mio tumore si poteva curare, mentre lui aveva letto su Internet che era “inguaribile”. E’ molto importante spiegare bene a tutti che “inguaribile” non vuol dire “incurabile”. I tumori, ma anche le malattie cardiache, il diabete, le patologie autoimmuni, sono spesso “inguaribili”, ma si possono quasi sempre curare e le cure giuste consentono oggi di vivere per tanti anni e di morire magari per altri motivi. Se mi fossi ammalata qualche anno prima, quando non c’erano i farmaci innovativi che ho sperimentato, sarei sicuramente già morta. Oggi ci sono farmaci mirati, che hanno anche meno effetti collaterali e sono più sopportabili dal paziente».
Come ha cambiato la malattia l’approccio con i suoi pazienti?
«Come ricercatrice, non sono mai stata al letto del paziente. La malattia vissuta sulla mia pelle mi ha fatto però capire la necessità di dover studiare e utilizzare farmaci che, se devono essere usati per lungo tempo, non distruggano la vita delle persone più dello stesso tumore. E non parlo solo degli effetti collaterali fisici. Trascorrere uno o due giorni alla settimana in ospedale per sottoporsi a un trattamento per flebo vuol dire ricordarsi tutte le volte che sei malato, che hai un tumore e non sai se uscirai vivo, se dovrai continuare a soffrire, o quale morte ti attenderà. La ricerca è orientata oggi a utilizzare terapie meno invasive, somministrate per bocca, tranquillamente a casa. E questo aiuta il paziente a elaborare la malattia e viverla con maggior serenità».
Qual è stato il momento più brutto del suo percorso di paziente e quale il momento più gratificante?
«Forse l’esperienza più traumatica è stato un malore che ho avuto all’inizio della malattia, a causa di un Herpes virus che mi aveva “paralizzato” i polmoni. Ho avuto la netta sensazione di non riuscire più a respirare e di dover morire… Abbastanza angosciante anche l’idea della permanenza per 15 giorni, per ben due volte, in camera sterile, per sottoporsi all’autotrapianto di cellule staminali: mi sembrava che sarebbe stato con una prigione, senza il contatto con la gente, il calore di un abbraccio. Invece, non è stato cosi difficile, era un po’ come stare protetta nell’utero materno. Viceversa l’esperienza più gioiosa, anche se non proprio legata alla malattia, è stata la nascita tre mesi fa di mio nipote Gregorio: una gioia indescrivibile che non pensavo di poter provare nella mia vita! Se al momento della diagnosi mi avessero detto che dopo dieci anni avrei avuto un nipote, mi sarei disperata perché mai avrei pensato di poterlo vedere. Ma oggi la sensazione più bella è prenderlo in braccio, coccolarlo: un’esperienza che mi ha ripagato dei tanti anni di sofferenze e angosce. E mi dà la forza di continuare a lottare per vivere e poterlo vedere crescere! Nella ferma convinzione che la volontà, la voglia di vivere, assieme ovviamente ai progressi della ricerca, sono oggi le armi vincenti contro il tumore».
di Paola Trombetta