Fa paura la varicella in gravidanza a moltissime mamme che temono di passare il virus al feto, mettendolo a rischio per lo sviluppo di eventuali malformazioni congenite. Un fatto, comunque, piuttosto raro e che dipende spesso dal periodo di gestazione in cui è avvenuto il contagio. Ma che si può evitare mettendo in pratica le avvertenze suggerite dalla quarta edizione delle linee guida sul tema (varicella in gravidanza), diffuse dal Royal College of Obstetricians and Gynaecologists.
«È fondamentale – dichiara Patricia Crowley, dell’University College di Dublino (Irlanda) e autrice del documento – che le gestanti che presentano i sintomi tipici della varicella, identificabili con la comparsa di chiazze rosse pruriginose dapprima al volto e nella metà superiore del corpo, che poi evolvono in pustoline e croste destinate a cadere, contattino il medico di famiglia, evitino la vicinanza con neonati o altre donne incinte». E soprattutto, se accertata con appositi test sierologici, per valutare un adeguato trattamento perché il vaccino anti-varicella (che rappresenta la terapia standard da fare prima che si cerchi un bimbo) in gravidanza non andrebbe attuato, o comunque assumendosi consapevolmente i rischi.
Sembrano invece scemare i timori correlati a esami diagnostici, come raggi X o ecografie ad esempio. Non sempre, infatti, “subire” un dosaggio di radiazioni arreca un danno a mamma e bimbo: anche in caso di indagini cliniche, il pericolo resta principalmente legato al momento della gravidanza in cui le si esegue, alla sede dell’esame (al ventre/addome, piuttosto che alla colonna o al cranio) e al tipo di prestazione, quindi, al differente carico di “energia” (ionizzante o non ionizzante) o di onde meccaniche (ultrasuoni) che l’organismo immagazzina.
«I maggiori rischi per il bambino – spiega il dottor Lorenzo Bianchi, Responsabile S.C. di Fisica Sanitaria dell’A.O. Ospedale di Circolo di Busto Arsizio, nonché Coordinatore Regionale AIFM Lombardia – si hanno nella fase dello sviluppo degli organi e durante il primo periodo fetale, sono invece minori nel secondo trimestre e minimi nel terzo». Quindi sarebbe meglio evitare, se non giustificato, ogni esame diagnostico nei primi tre mesi dal concepimento, sapendo comunque che in relazione al momento in cui i test vengono svolti, variano anche gravità e intensità dei danni. L’International Commission on Radiological Protection (ICRP) attesterebbe che nel primo stadio di gravidanza (dunque nelle prime due settimane dal concepimento) l’effetto più probabile è l’aborto, dalle due alle quattro settimane e per tutto il periodo di formazione degli organi si può incorrere nel pericolo di malformazioni del feto, mentre dalle due settimane fino al termine della gestazione potrebbe esistere il rischio di un ritardo nella crescita. «La probabilità di un deficit mentale – continua ancora il Dottor Bianchi – è invece alto dalle otto alle quindici settimane, è ancora presente dalle sedici alle venticinque settimane, mentre è basso o assente negli altri periodi. Nel periodo più sensibile alle radiazioni può correlarsi anche un rischio di riduzione del Quoziente Intellettivo».
Notizie che sembrano molto allarmanti ma che vanno invece ridimensionate, perché un esame diagnostico, da solo, non è in grado di mettere a repentaglio né la vita del feto né la sua qualità: «Gli effetti nocivi – tranquillizza il fisico sanitario – si verificano solo per dosi molto più superiori (da 10 a 100 volte) a quelle che un embrione o un feto possono ricevere nel corso di esami radiologici o medico nucleari a scopo diagnostico». Un’informazione fondamentale che, se tralasciata dal medico o non conosciuta dalla donna, potrebbe far decidere quest’ultima per un’interruzione di gravidanza senza che ve ne sia reale necessità.
Dunque, qual è la “buona regola” per sottoporsi a esami diagnostici in gravidanza? L’indicazione è quella di effettuarli solo dietro prescrizione medica che ne giustifichi la necessità; di evitarli nel primo trimestre di gravidanza. In particolare il veto è assoluto per la Risonanza Magnetica, mentre ultrasuoni ed ecografie sono giustificati solo se effettivamente motivati.
Non sono inferiori i timori per la mamma se a sottoporsi a un esame radiologico è il proprio bambino, già quotidianamente esposto a radiazioni cosmiche, gamma, terrestri, radon (gas proveniente dal sottosuolo), agenti tossici contenuti nei cibi. «La preoccupazione – spiega la dottoressa Sabina Strocchi dell’U.O. di Fisica Sanitaria dell’Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi di Varese, nonché membro del Comitato Direttivo AIFM Lombardia – può essere giustificata dal fatto che i bambini sono più radiosensibili rispetto agli adulti e hanno una lunga aspettativa di vita, dunque potrebbero patire maggiormente gli effetti (che però restano solo a livello di probabilità) di esposizione alle radiazioni».
L’indicazione, quindi, è cercare di limitare l’esposizione a raggi medici nei piccoli, tanto più se si tratta di esami particolari, come la TAC dell’encefalo ad esempio, verso la quale sussiste la probabilità di una percentuale di rischio nell’insorgenza di patologie importanti (leucemie o neoplasie cerebrali). Come proteggere dunque i bimbi da inutili radiazioni? «E’ corretto eseguire l’esame solo quando esiste un evidente beneficio – conclude la dottoressa Strocchi – con l’accortezza di impiegare la minima quantità di radiazioni sufficiente alla visualizzazione del problema in atto e adattando la dose all’età e alla corporatura del bambino. Il che significa limitare l’esame al solo distretto anatomico da esaminare utilizzando, quando possibile, metodiche alternative come ecografia e risonanza magnetica».
di Francesca Morelli