Cinque mila malati solo in Italia, 200 nuovi casi ogni anno, 2 milioni di portatori sani, ovvero una mamma o un papà che in una coppia su 700 possono correre il rischio di trasmettere la malattia a un figlio su 4: sono i numeri, importanti, della fibrosi cistica. Una malattia genetica, dalle implicazioni più o meno gravi, di ancor più difficile identificazione e gestione perché misconosciuta dalla popolazione. E’ questo il motivo per cui, in età fertile e prima del concepimento, non si attua lo screening prenatale: invece possibile, obbligatorio per legge, ma purtroppo non adottato in tutte le regioni italiane (sono escluse Puglia, Sardegna, Campania con eccezione dell’area del napoletano). Responsabile della fibrosi cistica è l’alterazione di un gene mutato per una particolare proteina, la CFTR, che comincia a produrre muco più denso e viscoso della norma tanto da non riuscire ad essere eliminato normalmente dall’apparato respiratorio e gastrointestinale, danneggiandone le funzionalità. «Il primo segnale che avviene nel bambino, si tratta infatti di una malattia ad insorgenza pediatrica – spiega il Professor Francesco Blasi, Presidente Eletto della Società Italiana di Medicina Respiratoria (SIMER) e Ordinario di Malattie respiratorie Università Statale di Milano – è il blocco a livello intestinale dell’eliminazione delle feci che avviene già poco dopo la nascita». Ma vi sono anche altri segni indicatori: ad esempio il sudore che sa di sale, perché troppo ricco di sodio, e le affezioni respiratorie. Nell’adulto, invece, oltre alle infezioni respiratorie ricorrenti, tra le manifestazioni più classiche della malattia possono sussistere anche diabete, cirrosi epatica, danni a carico del sistema gastroenterico e respiratorio. «Questo porta ad alterazioni dell’assorbimento del cibo e a conseguenti problemi di osteoporosi. Possono subentrare anche alterazioni a carico dell’apparato genitale con infertilità assoluta nell’uomo mentre nella donna permane la possibilità di avere figli, e svariate complicanze come ad esempio l’emotisi, ossia perdite di sangue dall’apparato respiratorio dovute alla dilatazione dei bronchi che portano in superficie i vasi, i quali producono sanguinamento al colpo di tosse».
Un contesto di malattia complesso che solleva in primo luogo l’importanza dei test di diagnosi al portatore, che tuttavia hanno un limite. Si basano infatti solo su un piccolo numero di mutazioni genetiche – all’incirca una cinquantina fra quelle più frequenti – quando in realtà le alterazioni sono oltre duecento. «Il test – precisa la Professoressa Carla Colombo, direttore del Centro di Fibrosi Cistica dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano – ha un grosso valore se ha esito positivo, mentre va preso con le dovute misure se è negativo e verificato con ulteriori indagini». Tuttavia la sua valenza sembra indiscussa: uno studio che ha preso in considerazione il Veneto, in cui il test prenatale era stato adottato solo da una parte del territorio, ha dimostrato nell’area virtuosa una incidenza inferiore di malattia. «In relazione a questo primo risultato – aggiunge ancora Colombo – vorremmo proporre in Lombardia un progetto pilota di screening del portatore, concentrato ad esempio all’area metropolitana, per osservare se l’impatto positivo del test registrato in Veneto sia riproducibile anche in altre realtà». Test che sarebbe meglio attuare in Centri di riferimento specialistici per la fibrosi cistica, proseguendovi anche le cure laddove necessarie. «Il centro – continua ancora Blasi – non ha solo un significato di aggregazione per i pazienti, ma garantisce anche l’eccellenza di un trattamento multidisciplinare che vede coinvolti pediatri, pneumologi, assistenti sociali, fisioterapisti, gastroenterologi, radiologi interventisti e che ruota intorno alle necessità del paziente».
Cambiando la storia e l’evoluzione della malattia: cure specialistiche sono infatti in grado di portare la mediana di sopravvivenza oltre ai 45 anni diversamente a quanto accade, ad esempio nei Paesi Baltici nei quali non esistono centri di riferimento in cui l’età media crolla a soli 12 anni. Il problema resta però ancora la cura, che non esiste, sebbene le terapie che compongono il programma standard di trattamento garantiscano una buona qualità di vita con un miglioramento della funzione respiratoria e dei sintomi. «Ad oggi – dichiara Fulvio Braido, Dirigente Medico della Clinica di Malattie Respiratorie e Allergologia presso l’Azienda Ospedaliera IRCCS San Martino di Genova e Consigliere della SIMER – abbiamo un solo farmaco che agisce in un piccolo gruppo di pazienti (in Italia sono meno dell’1%) in quanto mirato all’alterazione genetica. Però accanto a questo, grazie alla ricerca multidisciplinare, stanno uscendo dei potenziatori di questo farmaco che allargheranno a poco a poco la platea di pazienti trattabili».
L’ultima tappa terapeutica, nei casi più estremi, è rappresentata dal trapianto di polmone perché, nella fibrosi cistica, il problema maggiore è proprio il danno polmonare, con una sopravvivenza a 5 anni. Insieme al test e alle giuste cure in centri ad hoc, non meno importante è lo stile di vita: una attenzione particolare va infatti riservata, fino dall’età pediatrica, all’alimentazione che deve prevedere una dieta ipercalorica, iperlipidica ed enzimi pancreatici che insieme aiutano a migliorare la funzionalità respiratoria e a combattere meglio lo stato infiammatorio e infettivo, influenzando positivamente la prognosi della fibrosi cistica. E poi moto: l’attività fisica, adeguatamente supportata dalla dieta e dal sale, specie nel bambino, è fortemente caldeggiata perché funge anch’essa da fisioterapia respiratoria.
Un panorama che richiede oggi una maggiore sensibilizzazione e informazione perché le previsioni di malattia per i prossimi anni sono in crescita: 22 mila pazienti attesi nel 2015 (+28% di adulti e +9% di bambini); nel 2030 +35% di casi fra i grandi e 16% fra i piccoli fino a punte di +50% negl adulti e +20% fra i bambini nel 2025. Eppure intorno a qeusta malattia è allarme, perché la ricerca soprattutto verso quei tanto auspicati farmaci e nuove cure, rischia di subire un brusco arresto. A causa del blocco o del ridimensionamento dei fondi pubblici regionali e la disattesa, da parte di molte Regioni, della legge 548 del 1993 che stanzia fondi per 4,39 milioni di euro l’anno, ripartiti in base al numero di pazienti assistiti.
«Il Presidente del Consiglio ha mantenuto il fondo nella legge di stabilità – conclude Blasi – ma molte Regioni pensano già di utilizzarlo in altro modo». Se infatti Lazio, Veneto, Piemonte e Liguria hanno dichiarato di voler tenere fede agli impegni, esiste il pericolo fondato che non sia così per Abruzzo, Campania, Puglia, Calabria, Sardegna, Sicilia. A cui potrebbe aggiungersi anche la Lombardia. La Regione avrebbe deciso infatti di non mettere i 500 mila euro assegnati dalla legge (per i 1000 malati lombardi) in un fondo vincolato ad hoc, ma di utilizzarli anche per altre necessità, riservando alla fibrosi cistica solo 250 mila euro, da cui resterebbe escluso anche il finanziamento della ricerca appunto.
di Francesca Morelli