«Ero sposata da un anno e avevo solo 25 anni quando mi è stato diagnosticato un linfoma non-Hodgkin, un tumore del sistema linfatico molto invasivo», ricorda Anna Maria che oggi ha 68 anni e ha combattuto giovanissima per sei anni contro questo tumore del sangue, il più diffuso nella popolazione femminile. «I sintomi (febbre, tosse, vomito, dimagrimento) non erano specifici e la diagnosi fu ritardata di diversi mesi e avvenne solo dopo aver effettuato una stratigrafia che evidenziava una massa sospetta a livello del mediastino, tra cuore e polmoni. I medici mi sottoposero allora a sei cicli di chemioterapia che, 40 anni fa, era a base di adriamicina, un chemioterapico molto potente, ma dannoso anche per le cellule sane. In particolare ne ha risentito il mio cuore, oggi totalmente scompensato a causa di una cardiomiopatia dilatativa provocata proprio da questi farmaci». Ma la lotta di Anna Maria non è stata vana: dopo sei anni è riuscita a sconfiggere la malattia e a mettere al mondo pure un figlio, oggi quasi quarantenne, concepito durante l’ultimo ciclo di chemioterapia, nonostante il parere dei medici di abortire.
Come Anna Maria sono circa 12 mila gli italiani colpiti ogni anno da linfoma non-Hodgkin, il tumore più diffuso del sistema linfatico che attacca i linfociti, cellule del sangue presenti all’interno di organi come linfonodi, midollo osseo, milza.
Nonostante sia, tra i tumori del sangue, uno dei più diffusi, 4 italiani su 5 non ne hanno mai sentito parlare, come rivela una recente indagine, realizzata da GfK Eurisko per il lancio della Campagna d’Informazione “Ritorniamo al futuro: più tempo contro il linfoma”. Partita da Milano con il gesto simbolico di tirare indietro di due ore lo storico orologio di Palazzo Giureconsulti, a pochi passi dal Duomo, proseguirà nei prossimi mesi a Bologna, Roma, Napoli e Bari. Su Instagram, il social network per la condivisione delle immagini, si potranno postare foto per esprimere il valore del tempo, condividendo il proprio scatto con l’hashtag #ritorniamoalfuturo. Un’iniziativa per sensibilizzare le persone sull’importanza del tempo nella diagnosi precoce di una malattia come il linfoma, per il quale oggi esistono cure mirate, tanto più efficaci quanto prima vengono somministrate.
«Grazie ai progressi terapeutici, sono stati fatti enormi passi avanti negli ultimi 10-15 anni e oggi il linfoma non-Hodgkin è una malattia trattabile, con possibilità di cura anche nelle forme più aggressive che raggiungono il 70-80% dei casi», conferma la professoressa Enrica Morra, ematologa all’Ospedale di Niguarda e referente scientifico della Rete Ematologia della Lombardia. «E’ però fondamentale non perdere tempo e garantire a tutte le persone, nelle differenti regioni italiane, la possibilità di accedere alle più innovative cure per tutte le malattie del sangue, tra cui l’immuno-chemioterapia con la somministrazione dell’anticorpo monoclonale anti-CD20 rituximab, in aggiunta alla chemioterapia. Per questo è importante la presenza di reti Ematologiche in tutto il Paese, punti di riferimento delle strutture ospedaliere per il trattamento di questi malati».
Del resto, le malattie del sangue (linfomi, leucemie e mielomi) rappresentano il 10 per cento di tutte le neoplasie e fanno registrare, nel nostro Paese, ogni anno, 40mila nuove diagnosi. Sono tumori che derivano dalla proliferazione di cellule anomale del midollo osseo o del sangue. E sono in costante crescita, anche a causa dell’invecchiamento della popolazione. Oggi sempre più curabili, grazie agli avanzamenti compiuti dalla ricerca e alla disponibilità di nuovi e potenti farmaci. Le ultime novità vengono dal recente Congresso dell’American Society of Hematology (ASH) di San Francisco, dove sono stati presentati diversi studi sull’utilizzo della terapia immunologica. Un esempio, lo studio CheckMate-039 che ha valutato il farmaco nivolumab in pazienti con tumori del sangue recidivanti, in particolare con linfoma di Hodgkin, che non rispondevano ai tradizionali trattamenti chemioterapici.
LEUCEMIA LINFATICA CRONICA: PROMETTENTE COMBINAZIONE DI FARMACI
Farmaci sempre più mirati anche per la leucemia linfatica cronica (LLC), molto diffusa nel mondo occidentale. Colpisce ogni anno 4-6 persone su 100mila e prevale soprattutto in età avanzata (dopo i 65-70 anni), per lo più nel sesso maschile (rispetto alle donne gli uomini hanno il doppio delle possibilità di sviluppare la malattia), con un’incidenza che aumenta progressivamente con l’età (può arrivare fino a circa 30 casi ogni 100mila negli ultra-ottantenni). In Italia, sono circa 2.800 i nuovi casi che si registrano ogni anno. Quasi il 70 per cento dei malati ha più di 65 anni e, in questa popolazione di pazienti, sono presenti anche altre patologie, tipiche dell’invecchiamento (disturbi cardiovascolari, respiratori o renali). Comorbidità che determinano uno stato di salute “fragile” e spesso compromettono l’esito delle cure. Per questo si punta oggi a individuare approcci terapeutici, personalizzati, efficaci, che riducono il livello di tossicità.
«Ricevere una diagnosi di leucemia linfatica cronica, non deve spaventare», spiega Stefano Molica, direttore del dipartimento onco-ematologico dell’Azienda Ospedaliera Pugliese-Ciacco di Catanzaro. «Una grossa fetta di pazienti, circa il 60-70 per cento, al momento della diagnosi, non ha segni di attività di malattia e richiede solo un’osservazione clinica, ovvero un approccio di vigile attesa. Questi pazienti devono essere seguiti regolarmente da un ematologo presso un centro specialistico, con periodici esami emocromo-citometrici e visita clinica. Poi in caso di malattia attiva, oggi possiamo disporre di scelte terapeutiche assolutamente ampie. E anche in quel sottogruppo di pazienti anziani, quelli che una volta non si potevano trattare perché avevano altre patologie associate, adesso i nuovi farmaci consentono una cura adeguata, con una tossicità tutto sommato accettabile».
Il trattamento dei pazienti con leucemia linfatica cronica è generalmente basato sull’impiego di un anticorpo monoclonale (rituximab) diretto verso l’antigene CD20, espresso dalle cellule dei soggetti con LLC, associato a chemioterapia. Nei pazienti anziani (con più di 70 anni) e con uno stato di salute non ottimale (comorbidità), al rituximab si associa un chemioterapico “debole”, ma anche meno tossico, come il chlorambucil. In questo ambito, avanzano nuove combinazioni terapeutiche. Dati emersi da un recente studio (CLL11), pubblicato nel 2014 sulla rivista scientifica internazionale New England Journal of Medicine, documentano come la sostituzione di rituximab, con un altro agente simile di nuova generazione, l’obinotuzumab, risulti capace di migliorare il grado di risposta globale, completa e molecolare.
Un’alternativa terapeutica è rappresentata oggi anche dall’impiego della bendamustina, associata a rituximab. Si tratta di un chemioterapico recentemente riscoperto e studiato fin dagli anni ’60 nei Paesi dell’Est. Trascurato da tempo all’Ovest, viene riconsiderato e sperimentato a partire dagli inizi del 2000 e nel 2010 ottiene, dalla FDA prima e dall’EMA poi, l’indicazione per il trattamento della leucemia linfatica cronica, linfoma non-Hodgkin, non-responder a rituximab e trattamento in prima linea del mieloma multiplo. Il suo meccanismo d’azione è molto potente: da un lato danneggia il DNA delle cellule tumorali, dall’altro blocca il meccanismo di riparazione della cellula sul DNA. E’ in grado di produrre, specie se associato a un anticorpo monoconale anti-CD20, elevati tassi di risposta, con limitata tossicità (non fa perdere i capelli come la chemioterapia).
Risultati preliminari di uno studio (CLL10), ancora in corso e presentati al Congresso dell’American Society of Hematology di San Francisco, indicano come l’associazione bendamustina e rituximab, nei pazienti anziani con leucemia linfatica cronica, sia un’opzione alternativa alla terapia standard FCR (Fludarabina, Ciclofosfamide, Rituximab, spesso associata a effetti collaterali): altrettanto efficace e con un migliore profilo di sicurezza.
LA TERAPIA DI PRIMA LINEA PER IL MIELOMA MULTIPLO
La bendamustina ha ottenuto dalla FDA nel 2008 e dall’EMA nel 2010 l’indicazione amche per il trattamento in prima linea del mieloma multiplo, il secondo tumore più diffuso del sangue: in Italia ha un’incidenza media ogni anno di 9,5 casi su 100 mila uomini e 8,1 ogni 100 mila donne. Il miglioramento delle tecniche diagnostiche e l’innalzamento dell’età media della popolazione potrebbero spiegarne l’aumento di incidenza degli ultimi decenni. La tendenza a una maggiore frequenza nei pazienti con meno di 55 anni e la segnalazione addirittura di casi sotto i 35 anni, sottolinea l’importanza di fattori di natura ambientale come scatenanti questa neoplasia. Esistono campanelli d’allarme? «Lesioni ossee con possibile ipercalcemia, anemia, insufficienza renale sono i sintomi più evidenti di una patologia che richiede un trattamento immediato», conferma la professoressa Maria Teresa Petrucci, dirigente medico del Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia del Policlinico Umberto I, Sapienza Università di Roma. «Le forme benigne, invece, quali le gammopatie monoclonali, devono essere soltanto tenute sotto osservazione per valutare la possibile evoluzione della malattia in mieloma multiplo o linfoma, che avviene nel 30% dei casi. I parametri da prendere in considerazione sono la beta2-microglobulina, la proteina C reattiva, creatinina sierica e l’età del paziente. Spesso ci si accorge della malattia in occasione della donazione del sangue. Nelle donne sono più spesso presenti lesioni ossee e fratture, anche a causa della componente osteoporotica di cui soffrono con l’avanzare dell’età. Per questo, in età avanzata e in presenza di fratture vertebrali, si indirizza la paziente ad esami più specialistici del sangue, tra i quali l’elettroforesi che evidenzia quei componenti (immunoglobuline) presenti in modo abnorme e possibili segnali di malattia». In questi casi la paziente viene indirizzata a un centro specialistico di riferimento: il mieloma si cura per anni, anche se non si guarisce.
Tra le terapie più utilizzate, oltre alla bendamustina, due derivati dalla talidomide (lenalidomide e pomalidomide). Buoni risultati anche con alcuni farmaci immunomodulatori che rinforzano la risposta del sistema immunitario contro le cellule tumorali.
di Paola Trombetta e Luisa Romagnoni