EPATITE C: VERSO UNA CURA RADICALE DEL VIRUS

Colpisce circa 180milioni di persone nel mondo. Più di 1 milione e mezzo i pazienti in Italia, con 1000 nuovi casi e 20mila decessi ogni anno. E’ l’Epatite C, un’infiammazione del fegato causata dal virus Hcv. Un microrganismo che può entrare nel nostro corpo attraverso meccanismi diversissimi: dalle punture con oggetti contaminati da sangue o fluidi corporei infetti, a operazioni sanitarie o estetiche (interventi odontoiatrici, piercing, tatuaggi…), effettuate con materiale contaminato e non adeguatamente sterilizzato, fino ai rapporti sessuali e alla possibilità di trasmissione attraverso le mucose. Come la B, anche l’Epatite C (il più delle volte asintomatica), può cronicizzare, trasformandosi in una patologia di lunga durata: a seguito del contagio, circa il 60-70 per cento delle persone diventa portatore cronico del virus ed è esposto ai gravi danni epatici della malattia, come cirrosi e tumore al fegato.

Oggi nella cura dell’Epatite cronica C, si sta delineando una vera e propria svolta. Sono in dirittura d’arrivo farmaci potentissimi che promettono un’eradicazione del virus in oltre il 95 per cento dei casi. Antivirali ad azione diretta di seconda generazione (DAA Direct Antiviral Agent), associati, in alcuni casi, a trattamenti standard e sperimentati ora in regimi più semplici e meglio tollerati, in combinazione fra loro, senza interferone e rivabirina. Hanno pochi effetti collaterali e costituiscono una possibilità di cura anche per quei pazienti che non possono assumere interferone o ne sono intolleranti.

 

A Boston, al 65° Congresso Annuale dell’American Association for the Study of Liver Diseases (AASLD) “The Liver Meeting”, la comunità scientifica ha rivolto grande attenzione al trattamento dell’Epatite C.

«La gestione terapeutica del paziente con epatite C si è evoluta negli anni: dai primi interferoni (IFN) utilizzati in monoterapia, allo sviluppo di interferoni in forma pegilata (PEG-IFN), usati in associazione a ribavirina (RBV) in duplice terapia, all’associazione in triplice terapia di PEG-IFN e RBV con inibitori delle proteasi di prima generazione (boceprevir e telaprevir), fino alla fase odierna delle terapie mirate con agenti antivirali ad azione diretta, di seconda generazione», spiega Antonio Craxì, Professore ordinario di Gastroenterologia, Università degli Studi di Palermo. «L’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), ha autorizzato la rimborsabilità di sofosbuvir e sta per deliberare per simeprevir e daclatasvir: il problema di queste terapie è che, pur assicurando un buon profilo di efficacia e tollerabilità, sono principalmente attive contro i genotipi 1 e 4 di HCV, e dunque coprono il bisogno di circa il 65 per cento dei pazienti italiani, lasciando scoperta una persona su 3. Alla registrazione dei farmaci si sovrappone inoltre il problema dei costi, che, per queste nuove combinazioni terapeutiche, oscilla tra 60 e 90mila euro per ogni ciclo di cura». In un prossimo futuro si affacceranno nuove possibilità terapeutiche, fino a rendere disponibile entro il 2016  un’ampia gamma di offerte che comprenderà nuove terapie di combinazione con due farmaci, nonché terapie a tre farmaci. «La ricerca clinica che sta sviluppando questi regimi – aggiunge Craxì – mira a curare anche pazienti con altri genotipi di HCV (2 e 3) e ad ampliare ulteriormente lo spettro di uso dei farmaci, con una tollerabilità ancora migliore e periodi di cura anche più brevi. In ultimo, se i costi dei farmaci si abbasseranno a livelli meno onerosi per il sistema, si potrà pensare di trattare anche gli asintomatici che ospitano l’infezione e la diffondono».

In particolare, in merito alle combinazioni di due farmaci, l’associazione sofosbuvir/ledipasvir, già registrata dall’FDA qualche settimana fa e in commercio negli USA, ha ricevuto in questi giorni l’autorizzazione dalla Commissione Europea. Mentre un’altra terapia di combinazione, grazoprevir/elbasvir, ancora in sperimentazione, sembrerebbe accelerare la corsa verso una cura radicale dell’Epatite C. Utilizzati insieme in mono-somministrazione quotidiana, hanno dimostrato tassi altissimi di risposta virologica a 12 settimane, su una popolazione che comprendeva pazienti “difficili” come quelli con cirrosi, co-infetti con HIV o con precedente fallimento alla terapia. Non solo.

Grazoprevir, associato con un’altra molecola in fase di valutazione, MK-8408, (inibitore dell’NS5A), rappresenterebbe inoltre una chance di cura per i pazienti con problemi di resistenze, dopo il fallimento di precedenti terapie. «Uno dei problemi che si pone in un numero significativo di pazienti è il fallimento delle nuove terapie antivirali che determina resistenza all’intera classe di farmaci a cui esse appartengono. Da qui emerge la necessità di disporre di farmaci che mantengano l’efficacia contro i ceppi resistenti», afferma Carlo Federico Perno, professore di virologia all’università di Tor Vergata e direttore dell’unità di virologia molecolare del Policlinico Tor Vergata di Roma. «Gli studi presentati a Boston indicano che MK-8408 conserva un’eccellente efficacia antivirale anche contro ceppi resistenti ai farmaci della stessa classe (inibitori dell’NS5A virale), appartenenti alla prima generazione, garantendo quindi alte chance di efficacia anche nelle difficili condizioni di fallimento alla prima linea di trattamento».

di Luisa Romagnoni

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