Le più a rischio di un “colpo” sono le donne: nel 15% dei casi possono esserne vittime, ma per lo più (perché più longeve e predisposte ai trombi) sono destinate a portarne i gravi segni di disabilità. E non solo in età avanzata; già a partire dai 55 anni, con più probabilità intorno ai 65 anni, e maggior frequenza tra gli 80 e gli 85 anni. Tanto che su 1 milione di persone che oggi convivono con difficoltà funzionali, motorie, di linguaggio determinate da un ictus cerebrale circa la metà nelle fasce di età più elevate sono donne. Una escalation di nuovi ictus e recidive negli ultimi anni di quasi il 50%: 200 mila casi globali all’anno, di cui 80% nuove diagnosi e 20% (1 su 5) secondi episodi, ma destinati a non arrestarsi stando alle previsioni da qui al 2050.
È il quadro al femminile emerso dal “Quarto rapporto sull’Ictus” (Il PensieroScientifico Editore), un volume dedicato all’integrazione e alla continuità nelle cure dopo evento acuto, nato da due anni di lavoro da parte di un pool di oltre trenta esperti, presentato all’Istituto Auxologico Italiano a Milano.
«A differenza della malattia cardiaca o dell’infarto miocardico che dipende da una sola causa – spiega il dottor Marco Stramba-Badiale, direttore del dipartimento Geriatrico-Cardiovascolare e Laboratorio Sperimentale di Ricerche di Riabilitazione e Medicina Cerebrovascolare dello stesso Auxologico – l’ictus può essere determinato da più fattori: una emorragia; un episodio ischemico, ossia un embolo che si stacca da una placca aterosclerotica dei grossi vasi del collo (carotidi) o dal cuore per una aritmia cardiaca (fibrillazione atriale) e da una malattia dei piccoli vasi intracranici». Una malattia che mette a repentaglio la vita: «La mortalità – continua lo specialista – resta ancora elevata: 30% di casi nella prima settimana dopo ictus emorragico e 1 caso su 2 a un mese, contro il 20% a un mese e exitus a un anno per quello ischemico». Quella dell’ictus, però, non è una storia isolata: a un primo episodio (sia ischemico e/o emorragico) ne può succedere anche un secondo con un rischio del 10-15% a un anno (contro quasi la totalità degli ictus fino a 50 anni fa) e del 4% a 5 anni. Una riduzione di eventi e miglioramenti scientifici giustificano un intervento tempestivo il quale può salvare la vita e soprattutto preservare le funzionalità fisiche, cognitive e quindi la qualità della vita di chi è colpito da ictus. C’è però un ma: occorre battere il danno sul tempo e intervenire in quella finestra temperale che non consenta al peggio di accadere. In aiuto c’è un numero da digitare immediatamente: 118 che corrisponde al “Codice Ictus”. È un servizio d’urgenza, purtroppo non presente su tutto il territorio nazionale, che avvia selettivamente i pazienti colpiti da ictus in strutture dedicate: le Stroke Unit. «Si tratta di unità specializzate e multidisciplinari – aggiunge il Dottor Vincenzo Silani, direttore dell’UO di Neurologia, Stroke Unit dell’Auxologico – in grado di agire tempestivamente dopo avere determinato la natura dell’ictus (con una TAC o una risonanza) nel tempo ancora utile a salvare le capacità residue di un cervello colpito da un danno importante».
E le possibilità terapeutiche oggi sono molte. Innanzitutto la trombolisi, ossia una terapia farmacologica atta a dissolvere il coagulo che ostruisce il flusso ematico, attuato proprio nelle Stroke Unit. «È l’unico trattamento per l’ictus cerebrale ischemico in fase acuta di riconosciuta efficacia – continua Silani – e prima lo si effettua, migliore è la prognosi. Non ci sono linee guida però per sapere quando e in quali casi attuare questa metodica, tutto dipende dalla sensibilità e dalla capacità clinica del medico che deve saper valutare l’evoluzione di un rischio emorragico e/o la quasi certa risoluzione per il suo paziente».
All’intervento in fase acuta deve seguire poi una riabilitazione e, anche qui, i progressi sono stati diversi: fra questi la neuro plasticità: «Stiamo cercando di capire se la plasticità, ossia quel fenomeno che consente alla “macchina cervello” di modificare la sua struttura e la sua funzione adattandosi alle pressioni ambientali esterne – commenta Alessandro Mauro, professore ordinario all’Università degli Studi di Torino e direttore della Divisione di Neurologia e Neuroriabilitazione dell’Auxologico di Piancavallo (VB) – possa essere sfruttata anche per il recupero dopo un danno da ictus», ma anche la stimolazione elettrica e magnetica, «di cui si sta esplorando l’integrazione con l’esercizio fisico – aggiunge il Professor Tesio, Ordinario di Medicina Fisica e Riabilitativa dell’Università degli Studi di Milano e direttore del Dipartimento di Scienze Neuroriabilitative dell’Auxologico», la robotica e la realtà virtuale.
Prevenire sia l’evento cerebrovascolare acuto sia una recidiva è però possibile intervenendo su quelli che sono i principali fattori di rischio, primo tra tutti la pressione arteriosa. «Tanto più alta è la pressione – commenta Giuseppe Mancia, Professore Emerito all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e direttore del Centro di Epidemiologia e Trial Clinici dell’Auxologico – tanto maggiore è il rischio di avere un ictus a tutte le età, anche sopra agli 80 anni». Ridurre la pressione arteriosa significa anche abbassare le probabilità di recidiva e con terapie mirate rendere in parte reversibile il rischio ictus. A quali livelli di pressione bisogna arrivare per massimizzare gli effetti di una terapia antipertensiva non è però ancora del tutto chiaro, seppure gli ultimi studi ribadiscano l’importanza non solo del valore medio, ma anche la variabilità pressoria da visita a visita. Quanto più esso è minore, tanto minore sarà il rischio di ictus. «Il trattamento della pressione arteriosa alta – dichiara la dottoressa Lonati del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari, Neurologiche e Metaboliche dell’Auxologico – nelle primissime ore e nei giorni immediatamente successivi all’evento acuto, resta ancora un dilemma seppure sembrerebbe confermarsi l’indicazione alla cauta riduzione dei valori pressori valutata caso per caso». Prevenire un ictus, significa però anche evitare l’insorgenza o lo sviluppo di alcune condizioni cliniche come diabete, aritmia, le placche (restringimenti) dei grossi vasi delle carotidi e correggere scorretti stili di vita. «Occorre abolire il fumo, ridurre nella dieta i grassi animali – precisa ancora Stramba-Badiale – controllare il colesterolo, la glicemia, la regolarità del battito cardiaco, effettuare esami quali l’ecografia dei tratti sovraortici, controllare il peso e fare attività fisica, preservando queste abitudini anche dopo la manifestazione dell’evento acuto e controllandolo con una terapia farmacologica concordata con il proprio medico referente. Di norma con antiaggreganti piastrinici (aspirina) nel caso di un ictus ischemico o con anticoagulanti (inclusi quelli nuovi di più facile utilizzo) nell’ictus cardioembolico e nella fibrillazione atriale. A questi si possono aggiungere antiipertensivi, interventi di rivascolarizzazione chirurgica o endovascolare in caso di stenosi (ristringimento dei vasi) significativa».
Se si seguirà questo approccio – ossia di intervento in fase acuta, riabilitazione successiva e di prevenzione secondaria – saremo in grado di ridurre ulteriormente l’incidenza, la mortalità, la disabilità dell’ictus cerebrale – concludono concordi tutti gli specialisti – e l’impatto della malattia sul paziente, la famiglia e la società.
di Francesca Morelli