www.goirc.org), dove si è fatto il punto sulla ricerca oncologica in Italia.
«Le valutazioni dello studio canadese sono parziali e non sovrapponibili alla realtà clinica delle donne che oggi si sottopongono alla mammografia come esame di screening», sottolinea la dottoressa Stefania Gori, segretaria nazionale dell’AIOM (Associazione Italiana Oncologi Medici- www.aiom.it) e direttore dell’Unità di Oncologia dell’Ospedale Sacro Cuore – Don Calabria di Negrar (Verona). «Innanzitutto lo studio canadese si riferisce a donne nella fascia d’età compresa tra 40 e 59 anni, che si sono sottoposte solo per cinque anni alla mammografia annuale e poi sono state seguite per un lungo follow up, da 6 a 25 anni. In Italia, invece, così come in altri Paesi, lo screening è previsto ogni due anni, in modo continuativo, nelle donne tra i 50 e 69 anni. Anche se, attualmente, l’adesione allo screening raggiunge percentuali superiori all’80% nel Centro-Nord Italia, mentre al Sud Italia-Isole non raggiunge il 40%, un dato è, comunque, certo: lo screening mammografico ha ridotto del 30% la mortalità ed è l’unico esame in grado di individuare precocemente un tumore di dimensioni anche di pochi millimetri, impossibile da rilevare con l’autopalpazione. La diagnosi di tumori piccoli permette inoltre trattamenti meno demolitivi.
Inoltre, molti studi hanno confermato che la mortalità aumenta quanto maggiori sono le dimensioni del tumore alla diagnosi e quanto più è avanzato lo stadio. Se la sopravvivenza per tumori di piccole dimensioni raggiunge e supera ormai il 90%, si riduce invece in modo inversamente proporzionale con tumori di dimensioni superiori. E queste considerazioni, confermate da numerosi studi clinici, inducono addirittura a suggerire l’utilizzo della mammografia in donne più giovani (con meno di 50 anni) e più anziane (sopra i 70 anni). E’ inoltre importante considerare i fattori di rischio individuali di ogni donna: non a caso le linee guida attuali raccomandano, nelle donne ad altro rischio per familiarità o perché portatrici della mutazione dei geni BRCA1 e/0 BRCA2, controlli a partire dai 25-30 anni, per individuare precocemente un eventuale tumore, più frequente in queste situazioni. Per queste donne “ad alto rischio” di sviluppare un tumore mammario nell’arco della loro vita si raccomanda, oltre alla mammografia, un esame più sofisticato come la Risonanza magnetica».
Contestualmente alla proposta di estendere lo screening mammografico a una fascia d’età più ampia, la comunità scientifica sta sottolineando l’importanza di valutare le caratteristiche istologiche e molecolari di ogni tumore.
«Grazie ai moderni test molecolari, siamo in grado oggi di tipizzare il tumore, ovvero di distinguere quelle caratteristiche che lo rendono sensibile a una determinata terapia», puntualizza il professor Rodolfo Passalacqua, presidente del GOIRC e Direttore dell’Unità di Oncologia dell’Ospedale di Cremona. «Non c’è solo “un tumore”, che un tempo si combatteva genericamente con la radioterapia e la chemioterapia e/o l’ormonoterapia. Oggi si riescono a individuare tanti tipi di tumori mammari che siamo in grado di trattare con terapie sempre più “mirate e personalizzate”. Per citare solo qualche esempio, ci sono alcuni tumori alla mammella che sovraesprimono il recettore HER2, fattore che favorisce la proliferazione neoplastica e rende il tumore più aggressivo, ma che rispondono molto bene a terapie mirate come Herceptin (trastuzumab, che agisce bloccando l’attività di HER2). Oppure esistono tumori mammari ormonodipendenti, per i quali funzionano quei farmaci (tamoxifene, letrozolo, anastrozolo, exemestane) che bloccano la proliferazione ormonale. Tutti questi farmaci sono usati tra l’altro come terapie precauzionali, dopo la rimozione chirurgica del tumore mammario, ma anche nelle forma più avanzate, ove, da pochi mesi, è possibile utilizzare, in casi selezionati, un altro farmaco: everolimus in associazione ad exemestane. Un altro aspetto interessante, per le donne ad alto rischio, è la possibilità di poter ridurre lo sviluppo di tumori con la somministrazione di farmaci ormonali (tamoxifene, raloxifene, exemestane): si parla in questo caso di chemioprevenzione. Tali farmaci, somministrati per cinque anni in donne ad alto rischio, sembrano ridurre del 50% la probabilità di sviluppare un tumore negli anni successivi. Perché entrino nella pratica clinica, sono necessari comunque i risultati di altri studi ancora in corso».
di Paola Trombetta