«La mia vita scorreva serenamente: due figli all’università, un marito affettuoso, una casa da seguire e un’attività nell’impresa di famiglia. Una vita normale fino a quando mia madre non cominciò a cambiare, dapprima in modo quasi impercettibile e poi sempre più evidente. Allora, agli inizi degli anni ’80, non sapevo neppure che esistesse la malattia di Alzheimer. Mia sorella ed io, con le rispettive famiglie, ci trovammo pian piano in una spirale di difficoltà e di domande a cui non riuscivamo a dare risposte: perché la mamma, che non aveva ancora 70 anni, non riusciva più a leggere? Perché non era più in grado di organizzare le sue solite serate di bridge o di canasta e le cene con gli amici di una vita? Perché continuava a ripetere le stesse cose?… Cosa potevamo fare? Dopo molte peregrinazioni trovammo la spiegazione ai nostri dubbi: un medico ci comunicò che si trattava di Alzheimer e che non c’era possibilità di cura», così racconta Gabriella Salvini Porro, presidente della Fondazione Alzheimer Italia. Ma la sua storia potrebbe “colpire” altre 35 milioni di persone nel mondo, di cui 700 mila in Italia (la metà donne), che vivono o saranno destinate a subire impatto e conseguenze della malattia.
«Mia sorella ed io avevamo fame di sapere e capire quello che stava succedendo, ma riuscimmo a ottenere informazioni solo da altri familiari che avevano sperimentato prima di noi la malattia. Alla morte della mamma, mi dissi che non avrei più voluto parlare di Alzheimer. E, invece, un paio d’anni dopo, incontrai alcuni familiari di malati e insieme ci impegnammo a Milano per la nascita dell’Associazione Alzheimer e successivamente per la costituzione della Federazione Alzheimer Italia». Un’azione previdente poiché i numeri dei malati, già enormi, potranno diventare epidemici nel 2050 quando si stima che i sofferenti di Alzheimer potranno raggiungere i 115 milioni, richiamando la necessità urgente di misure di salvaguardia. Queste sono iniziate e state messe sulla carta lo scorso 11 dicembre a Londra con un summit che ha visto raccolti attorno a un unico tavolo i leader mondiali del G8, impegnati a dare battaglia alla malattia con proposte concrete, tra cui identificare entro il 2050 una cura o una terapia che modifichi sostanzialmente il decorso della malattia, creare una figura di “Responsabile mondiale sulla demenza”, quale approccio innovativo al problema, sviluppare un piano internazionale per la gestione alla malattia (oggi solo 13 nazioni dispongono di un “progetto”, Italia esclusa), garantire il libero accesso alle ricerche finanziate dalle istituzioni pubbliche affinché la condivisione di dati e informazioni possa aprire la strada a nuovi studi.
Solidali a questo impegno sono anche Alzheimer Disease International (ADI), Alzheimer Italia. «Ho capito – continua la fondatrice – che solo un organismo costituito da più persone poteva diventare un interlocutore autorevole presso la società, la scienza e le istituzioni e contribuire a creare le basi di un percorso di ricerca, cura e assistenza allo scopo di migliorare la qualità di vita dei malati di Alzheimer e dei loro familiari, ben consapevoli che il grande limite della malattia resta ancora il ritardo diagnostico». «Spesso la diagnosi avviene quando è ormai compromesso più del 70% del corredo neuronale – dichiara il professor Carlo Ferrarese, segretario della Società Italiana di Neurologia – riducendo al minimo i margini di successo della terapia». Invece fattori di rischio come l’età, ambientali come i traumi o l’esposizione a sostanze tossiche (alluminio, idrocarburi aromatici) e sintomi iniziali con lievi problemi di memoria, domande ricorrenti o prime difficoltà a muoversi anche in luoghi noti e a svolgere attività quotidiane, sono segni da non sottovalutare.
«L’intervento precoce nelle malattie neurologiche – aggiunge la professoressa Monica Di Luca del Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari dell’Università degli Studi di Milano – consente di alleviare il carico economico e sociale di queste patologie».
Per battere la malattia sul tempo, infatti, occorre una azione sinergica e solidale. «La collaborazione di tutte le figure coinvolte, quali i governi, l’industria, le associazioni non-profit – continua la dottoressa Salvini Porro – è fondamentale per creare una rete di assistenza e servizi su tutto il territorio nazionale per non lasciare soli malati e familiari». A questo scopo la Federazione Alzheimer Italia ha avviato e sviluppato l’attività di “Pronto Alzheimer”, il primo telefono dedicato alla malattia divenuto nell’arco dei 20 anni, con 7 mila richieste di aiuto all’anno e 130 mila soddisfatte in tutto il periodo di attività, un punto di riferimento nazionale sia per i familiari dei malati sia per le figure professionali che, attraverso sportelli di informazione, consulenze in materia legale, previdenziale, psicologica e sociale, indirizza verso i servizi territoriali più adeguati. «Occorrono servizi e strutture per creare una rete assistenziale su tutto il territorio. Noi siamo pronti a offrire la nostra esperienza». Ma occorre anche un aiuto da parte di ciascuno e con questo intento, e per essere ancora più attiva e presente sul territorio, la Federazione Alzheimer Italia avvierà dal 2 al 16 febbraio una campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi mirata a sostenere in modo particolare Pronto Alzheimer. Sarà possibile donare 1 euro inviando un SMS al numero 45596 da rete mobile, 2 euro da rete fissa (TeleTu e TWT), da 2 a 5 euro chiamando da rete fissa Telecom Italia, Infostrada, Fastweb.
di Francesca Morelli