«Sono donne, di età media tra i 62 e i 65 anni, nel pieno vigore dell’attività lavorativa e del carico familiare, e soffrono di un dolore importante: quello cronico, perdurante oltre i tre mesi, dal forte impatto socio economico e spesso invalidante». Così, la Dottoressa Marta Gentile, Presidente dell’Associazione Vivere senza dolore, traccia l’identikit al femminile della paziente con dolore. Questo, nell’80% dei casi, è determinato e alimentato nel tempo da patologie di natura non oncologica: tra le più frequenti la sciatalgia o la lombosciatalgia a cui seguono emicranie, artrosi, fibromialgia. È il “semplice” mal di schiena che spinge a rivolgersi spesso al medico di famiglia o ai centri specialistici, perché il dolore non controllato può trasformarsi in un problema complesso. Specie per la donna, immobilizzata nel suo doppio incarico di lavoratrice e care-giver dall’impossibilità di alzarsi, di muoversi con disinvoltura e di prendersi cura delle necessità quotidiane professionali o affettive fuori e dentro casa. Eppure il dolore, anche in queste situazioni, è spesso sottovalutato e il primo tentativo è di un’autocura con antidolorifici: in 8 casi su 10, spesso con esiti infelici o approcci scorretti. Lo rivela una indagine condotta da Doxa per conto del Centro Studi Mundipharma, fra 500 pazienti (25-64 anni), 100 medici di famiglia e 100 farmacisti di tutta Italia. «Secondo la nostra ricerca, il 30% dei pazienti visitati dai medici di famiglia nell’ultimo mese – spiega Massimo Sumberesi, Managing Director di Doxa – lamenta dolore, nel 66% in forma cronica che viene curato nel 95% dei casi (1 volta su 2) con FANS, ossia i classici antidolorifici». Ma le conseguenze di questo approccio inadeguato al dolore cronico sono importanti. «Recenti dati di letteratura – commenta Massimo Allegri, Dirigente Medico Terapia del Dolore del Policlinico S. Matteo di Pavia – mostrano che l’uso protratto di antinfiammatori possa causare non solo danni gastrici ma anche problemi cardiovascolari, spesso tamponati almeno nel primo caso con gastroprotettori e un aggravio di costi per il sistema sanitario nazionale». Ma non limitati solo a questo. «Una donna che non è più in grado di prendersi cura della famiglia – aggiunge ancora la dottoressa Gentili – ha bisogno di chiedere aiuto ai nonni se sono in salute o, il più delle volte, rivolgersi a collaborazioni esterne. Ma non meno importanti sono le ripercussioni sulla sfera professionale, quali l’incapacità di andare a lavorare, la riduzione dell’orario dedicato alle attività lavorativa e/o del grado di responsabilità, e sugli aspetti psicologici a essi correlati». Che per la donna, in un contesto già di discriminazione, significano l’aggravante e il timore di perdere il lavoro a causa di una condizione dolorosa protratta.
Come deve dunque essere gestito e trattato il dolore? La legge 38, emanata da quasi quattro anni, ha consentito da un lato di definire che il dolore cronico non è più né un segnale né un campanello di allarme, ma diventa esso stesso una patologia che va considerata e curata in maniera indipendente dalla malattia che lo ha generato, e dall’altro ha permesso di fare chiarezza su quella che è la terapia del dolore e le cure palliative, distinguendo le due reti. «Questo ha dato una dignità di malattia al dolore – aggiunge Gentili – e ha stabilito che sia il medico di famiglia il primo referente a cui rivolgersi per il dolore. Sarà lui a indirizzare, in caso di una situazione complessa, allo specialista del dolore (algologo), al centro di primo livello (spoke) o al Centro di eccellenza (Hub) dove si potrà affrontare il dolore con tutte le sue implicazioni nella maniera più adeguata secondo l’intensità e l’origine, e non necessariamente correlata agli antiinfiammatori». Questi ultimi, seppure abbiano una loro validità, sono spesso abusati anche in trattamento cronico dove, invece, è meglio ricorrere agli oppioidi anche in caso di moderata intensità, partendo dalle basse dosi. Qualche live apertura, anche in questa direzione, si comincia a intravvedere. «Favorevoli a un maggiore impiego di oppiacei, non solo nel dolore oncologico o nelle cure palliative – dichiara Sumberesi – sono il 64% dei pazienti, il 76% dei farmacisti e il 94% dei medici di famiglia». Perdura però verso questi farmaci ancora uno scetticismo sulla possibile dipendenza che ne può conseguire. «Le evidenze scientifiche – rassicura Allegri – dimostrano che nei soggetti trattati con oppiacei a scopo antalgico, non sembrano attivarsi le medesime aree cerebrali coinvolte nei meccanismi della dipendenza. Oggi, inoltre, vi sono nuovi farmaci e nuove associazioni farmacologiche, come ossicodone e naloxone (antagonista dell’oppioide) che, per le loro proprietà, oltre a ridurre notevolmente la possibilità di abuso, presentano una riduzione della stipsi, un effetto collaterale frequente con altri oppioidi e che può ridurre l’efficacia della terapia». Ma non tutti i tipi di dolore sono uguali e, alcuni, non necessitano di essere trattati con i farmaci: a fianco a essi (cortisonici compresi) esistono altre valide alternative – neurostimolazione, fisiochinesi terapia, blocchi nervosi, sostegno piscologico, chiropratica, agopuntura – che medici e specialisti sono in grado di individuare e applicare a seconda dei casi.
di Francesca Morelli