I numeri sono drammatici: 5 mila nuove diagnosi ogni anno e in continua crescita (5.400 nel 2020 e quasi 6 mila nel 2030). Sono le ultime stime dell’incidenza del tumore ovarico tra la popolazione femminile solo in Italia. Poco confortante anche la sopravvivenza: circa il 45% a cinque anni contro l’89% per il tumore del seno. Sintomi aspecifici che ne ritardano la diagnosi, la qualità degli interventi chirurgici a volte poco risolutivi, lo stallo degli ultimi 30 anni nella ricerca scientifica sono gli ostacoli e i limiti che condizionano ancora oggi la malattia. Tre fondamentali ragioni, ma non le sole, che hanno spinto a istituire la prima giornata mondiale del carcinoma ovarico (8 Maggio) con iniziative, dibattiti, progetti in 16 paesi (Argentina, Brasile, Canada, Danimarca, Irlanda, Italia, Giappone, Messico, Portogallo, Repubblica Ceca, Russia, Spagna, Svezia, Turchia, Regno Unito, USA) da 25 Associazioni, sotto l’egida dell’Ovarian Cancer Committee che tutte le raduna. «Obiettivo – spiega Flavia Bideri, presidente ACTO (Associazione Contro il Tumore Ovarico) – è mobilitare l’opinione pubblica, la stampa e le istituzioni sanitaria contro questa malattia che è il 5° tumore più comune nella donna, ma il più mortale». Occorrono, per vincere il tumore ovarico, fatti concreti: farmaci antiangiogenetici di ultima generazione, presenti già in tutta Europa, in arrivo (forse) a breve anche in Italia ma senza la rimborsabilità del Sistema Sanitario Nazionale, e l’individuazione di “elementi” che ne consentano la diagnosi precoce con screening mirati. Oggi questa è ancora appesa, invece, a visite ginecologiche, ecografia transvaginale, marker tumorali (CA 125 e HEA4), purtroppo non predittivi. E così alla diagnosi si arriva troppo tardi. «Si può guarire nell’80-90% dei casi – commenta la professoressa Nicoletta Colombo, direttore dell’Unità di Ginecologia oncologica medica dell’Istituto Europeo di Oncologia – quando il tumore viene scoperto alla stadio iniziale, mentre le probabilità si abbassano al 30-40% in caso di malattia avanzata». Non conforta neppure sapere che esistono alcuni fattori che ne possono abbassare il rischio. «Vi è un’associazione inversa chiara con l’uso dei contraccettivi e non solo – dichiara Eva Negri, capo del Laboratorio di Metodi epidemiologici dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano – ossia più figli una donna ha avuto o più a lungo ha fatto uso di contraccettivi orali, più basse sono le probabilità di sviluppare un tumore dell’ovaio». Mentre pare ne aumentino il rischio un menarca precoce, una menopausa trardiva; si indaga anche su abitudini, stili di vita e dieta. Informazioni utili, importanti ma non ancora sufficienti a salvare la vita di un maggior numero di donne. «La ricerca è particolarmente fervida in questi anni – commenta Maurizio D’Incalci, Direttore del Dipartimento di Oncologia dell’Istituto di ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano – e la tecnologia ci ha consentito di comprendere che il carcinoma ovarico non è una sola ma più malattie con diverse istologie e sensibilità alla terapia. Arrivare alla tipizzazione (o firma) molecolare di ogni singola tipologia di tumore consentirà di identificare i diversi meccanismi alterati nelle cellule tumorali per creare farmaci specifici in grado di modificare il microambiente che lo ha determinato in maniera efficace». Questo significa andare verso una “personalizzazione” del trattamento: non più cure identiche e a tappeto ma terapie che combinino farmaci e caratteristiche dei diversi gruppi di pazienti o di tumori. Accanto agli anticorpi monoclonali, oggi la terapia più efficace, obiettivo della ricerca è puntare alla creazione di farmaci a bersaglio multiplo e di farmaci antiangiogenetici (come bevacizumab) che bloccano la crescita del tumore inibendo la formazione di nuovi vasi sanguigni. Ma ancor prima di questo sono prioritarie nuove “armi” di diagnosi precoci, a cui è legata la speranza di ridurre l’incidenza di questa malattia che non accenna ad arrestarsi.
di Francesca Morelli