Si è svolto i giorni scorsi (23 marzo) a Bergamo il congresso “La vitiligine in Italia e nel sistema sanitario: l’innovazione possibile”, organizzato dalla SIDeMaSt (Società Italiana di Dermatologia medica, chirurgica, estetica e delle Malattie Sessualmente Trasmesse) in collaborazione con ADOI (Associazione Dermatologi Ospedalieri Italiani). E’ stata l’occasione per fare il punto – attraverso la voce dei massimi esperti nazionali in materia – su una patologia cutanea largamente diffusa. In Italia ne soffrono circa un milione di persone, di queste oltre il 60% sono donne. Secondo le linee guida dell’Unione Europea, la strategia vincente per combattere la vitiligine è una terapia combinata: farmacologica (essenzialmente a base di cortisone) nella fase di espansione della malattia, seguita da fototerapia (esposizione a raggi UVB a banda stretta) nel momento di stabilizzazione. La risposta può essere disattesa nei casi limite, refrattari alle cure tradizionali. «Di fronte a queste situazioni cliniche, nelle quali la malattia presenta piccole chiazze ed è stabile da almeno un anno – spiega la dottoressa Lucia Dell’Anna, ricercatrice presso il Laboratorio di Fisiopatologia cutanea dell’Istituto San Gallicano (IFO), diretto dal Prof. Mauro Picardo, e relatrice al congresso bergamasco – si può optare per un trapianto autologo, cioè dalla stessa persona, di melanociti e cheratinociti». La vitiligine è infatti una patologia cronica della pelle caratterizzata da macchie più chiare o bianche localizzate principalmente al volto, mani, collo, ascelle, genitali e piedi causate da disordini di natura autoimmunitaria che generano la carenza o la totale mancanza delle cellule responsabili della pigmentazione (colorazione) cutanea, i melanociti appunto. «Questa innovativa metodica è spesso considerata l’estremo trattamento o un tentativo, mentre invece può rappresentare nei casi non responsivi una soluzione». La tecnica ideata in Francia dal Professor Yvon Gauthier e importata anche in Italia è poco invasiva, di facile realizzazione, dà buoni risultati estetici e promette una significativa percentuale di successo. «Il trapianto autologo – aggiunge la specialista – consiste nel prelievo, con uno speciale strumento, di un campione tissutale dal cuoio capelluto, dalla nuca o dai glutei, le cui cellule vengono poi isolate in laboratorio e utilizzate per la preparazione di una sospensione cellulare. Si tratta di un gel che viene applicato nell’arco di poche ore direttamente sulle chiazze bianche, precedentemente esfoliate con il laser, per renderle più ricettive ad accogliere i melanociti». Il medicamento resta a contatto della lesione per 7 giorni e dopo la rimozione si inizia una fototerapia. «Attraverso il laser a eccimeri, in grado di emettere in frazioni di secondo e a un’elevata quantità di energia, raggi UVB monocromatici, si stimolano le cellule e i melanociti impiantati. Questo permette di ripigmentare la zona interessata da malattia nell’arco di circa sei mesi e in maniera sufficientemente uniforme». Qualunque sia la possibile motivazione di insorgenza della lesione, restano importanti il risvolto estetico e l’impatto psico-sociale della malattia. «Con questa tecnica – conclude la dottoressa Dell’Anna – possiamo sperare in una possibilità di guarigione e un ritorno a una vita normale soprattutto degli adolescenti e delle giovani donne che cadono in depressione per il senso di inadeguatezza che accompagna la malattia». La metodica, non ancora convenzionata con il Sistema Sanitario Nazionale, viene praticata in pochi centri d’eccellenza: tra questi l’Istituto Dermatologico San Gallicano di Roma e l’Ospedale San Raffaele di Milano (dove però è in fase sperimentale). E per il futuro? Tra le prospettive terapeutiche più innovative si fa strada l’uso degli analoghi del melanocyte stimulating hormon (MSH), un fattore che viene prodotto dall’epidermide e che ha un ruolo importante nell’indurre la pigmentazione.
Francesca Morelli