Il 12 febbraio 2013 passerà alla storia come il giorno in cui si è registrato il crollo delle nascite! La Fesmed (Federazione Sindacale Medici Dirigenti), insieme a molte associazioni e società scientifiche, tra cui Aogoi, Sigo, Agui, Agite, Sieog, Aio, ha infatti proclamato lo sciopero nazionale di 24 ore di ginecologi e ostetriche che lavorano nei punti nascita, nei consultori, negli ambulatori sul territorio.
I motivi? La mancata messa in sicurezza dei punti nascita, con il conseguente aumento del ricorso indiscriminato ai parti cesarei, e la non risoluzione della scottante questione del contenzioso medico-legale in campo sanitario, ragione per cui molti ginecologi, allo scopo di evitare problemi legali, decidono di praticare il cesareo per tutelarsi.
In Italia sono stati eseguiti 12 mila cesarei, un numero “esagerato” e non sempre “giustificato”: nella metà dei casi, precisamente nel 43%, si potevano evitare. Lo rivela un’indagine nazionale condotta dal Ministero della Salute e presentata di recente a Roma, in cui sono state esaminate 1.117 cartelle cliniche di 32 strutture ospedaliere in 19 Regioni. Dalle quali emerge che nel 43% dei cesarei praticati, non c’erano le motivazioni medicalmente valide per giustificarli.
«Purtroppo l’Italia è ai primi posti in Europa per parti cesarei: una media del 25% contro l’8-10% europeo, con picchi superiori al 50% in alcune Regioni come la Campania», fa notare il professor Nicola Surico, presidente della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (www.sigo.it). «Le cause sono spesso riconducibili al timore dei contenziosi medico-legali che possono coinvolgere i ginecologi che non abbiano eseguito il cesareo, in seguito a complicanze da parto alla madre o al feto. In altri casi dipendono da questioni organizzative delle singole strutture ospedaliere, molte delle quali, soprattutto le più piccole, sono costrette a “programmare” i cesarei perché non riescono a sopperire all’assistenza quotidiana per i parti naturali. Per questo noi ginecologi chiediamo una maggior tutela da parte delle istituzioni della nostra professione e soprattutto auspichiamo che venga finalmente attuata la riforma dei punti nascita, approvata il 16 dicembre 2010, ma non ancora resa esecutiva in molte Regioni, che prevede l’accorpamento dei punti nascita e la chiusura di quelli con meno di 500 parti all’anno. Solo così si riuscirebbe a ottimizzare l’assistenza alle partorienti, a garantire quei servizi che consentono di eseguire con tutta tranquillità e professionalità i parti in modo naturale e indolore, senza dover ricorrere al cesareo, una scelta spesso richiesta dalla stessa partoriente o voluta dal ginecologo per motivi organizzativi o per tutelarsi legalmente». Sono queste le motivazione principali che hanno indotto la Fesmed (Federazione Sindacale Medici Dirigenti) a proclamare lo sciopero nazionale di ginecologi e ostetriche di tutt’Italia: una manifestazione nazionale è prevista a Palermo e in tutti i capoluoghi di Regione si terranno, a partire dalle 11, una serie di conferenze stampa, aperte al pubblico.
di Paola Trombetta
Parte un progetto pilota e il percorso nascite si fa più sicuro
Coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e finanziato dal Ministero della Salute, è partito un progetto pilota di sorveglianza della mortalità materna: coinvolge sette regioni – Veneto, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia – quelle in cui risiede il 65% delle donne in età riproduttiva. Obiettivo dello studio è aumentare la sicurezza del percorso nascite sulla base di dati affidabili e, grazie alla consapevolezza delle cause cliniche associate agli eventi nefasti, studiare strategie efficaci di prevenzione. «Le morti materne – spiega Serena Donati, ricercatrice dell’ISS e coordinatrice del progetto – benché rare nei paesi più avanzati, restano una priorità di salute pubblica sia per la drammaticità dell’evento sia perché, di queste, circa la metà potrebbero essere evitate». È la seconda tappa di un percorso cominciato, sempre nella stessa direzione, nel 2008-2010 con lo “Studio sulle cause e messa a punto di modelli di sorveglianza della mortalità materna”: la ricerca aveva permesso di evidenziare la sottostima del fenomeno in cinque regioni, attraverso il raffronto dei dati delle schede di morte Istat con quelli di dimissione ospedaliera. Nello stesso studio era poi stato dedicato un focus all’identificazione e prevenzione dei gravi eventi morbosi responsabili della fine di vita. Anche in questa seconda tappa, il progetto ambisce a una visione più ampia. «Intendiamo promuovere una cultura della trasparenza – conclude la ricercatrice – finalizzata a migliorare l’assistenza e non a colpevolizzare i professionisti». Modello di riferimento è il Regno Unito, dove il sistema delle “indagini confidenziali”, in vigore già dal 1952, ha permesso di ridurre le morti materne evitabili e di promuovere le buone pratiche contestualmente all’aggiornamento dei professionisti sanitari.
Francesca Morelli