«E’ una battaglia, quella contro il tumore all’ovaio, che stiamo perdendo tre volte! In primo luogo per la difficoltà della diagnosi; poi per la ricerca scientifica che non trova armi efficaci; infine per l’impossibilità di reperire i nuovi farmaci». Flavia Bideri, fondatrice e presidente di ACTO Onlus (Alleanza contro il Tumore Ovarico – www.actoonlus.it) lancia l’allarme in occasione della Giornata Mondiale contro il Cancro (che ricorre il 4 febbraio). «Purtroppo è molto difficile diagnosticare precocemente la malattia: non esistono marcatori tumorali validi, né esami specifici per una diagnosi mirata. Dalla mia esperienza personale, è passato un anno prima della diagnosi, con ripetute ecografie, soggette a interpretazioni delle più disparate, da parte di ginecologi e oncologi. Se avessi ricevuto una diagnosi tempestiva e mirata, non avrei dovuto affrontare la sofferenza di cure tanto devastanti! Non basta sensibilizzare le donne a non trascurare i sintomi del proprio corpo (gonfiori e dolori addominali) e sottoporsi ogni anno all’ecografia transvaginale: è indispensabile che esistano Centri qualificati dove potersi rivolgere per avere diagnosi e cure mirate, in tempi brevi!». Questo appello è stato condiviso dalle tre Società scientifiche: AIOM (Associazione Italiana Oncologi Medici), SIOG (Società Italiana di Oncologia Ginecologica) e SIGO (Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia) che, proprio in occasione della Giornata contro il Tumore, hanno presentato un documento congiunto per istituire Centri di riferimento polispecialistici che siano in grado di garantire assistenza a 360° alle donne con tumore all’ovaio, dalla diagnosi all’intervento, alla terapie, come si sta già facendo con successo nelle Breast Unit per il tumore al seno.
«Dal giorno della diagnosi all’intervento chirurgico non dovrebbero trascorrere più di 14 giorni e l’Unità operativa specialistica dovrà essere in grado di rispettare questi tempi», puntualizza il professor Paolo Scollo, presidente della SIOG. «Questo documento è molto preciso nel sottolineare l’importanza di intervenire precocemente per asportare il tumore e adottare le terapie più efficaci, valutate da un ginecologo-oncologo. Per questo è stato stabilito che tali Unità operative debbano avere una casistica di un centinaio di tumori ovarici, trattandone chirurgicamente almeno dieci ogni anno. Solo così si potrà garantire quella professionalità che consente di ottenere il massimo risultato, utilizzando le terapie più innovative, sotto il controllo di professionisti competenti».
«In questi centri dovrebbe essere a disposizione personale qualificato con competenze plurispecialistiche (ginecologo-oncologo, urologo, chirurgo con esperienza di chirurgia ginecologica, ma anche epatica e rettale per l’asportazione di eventuali metastasi, radiologo, medico nucleare, anatomo-patologo “dedicato”», aggiunge il professor Nicola Surico, presidente della SIGO. «In più dovrebbero esserci apparecchiature per esami più specifici dell’ecografia, come l’Eco-doppler flussimetrico: consente di studiare la vascolarizzazione della massa identificata che, nel caso di tumore, aumenta considerevolmente. Da considerare che, in presenza di alterazioni cellulari di pochi millimetri, la malattia potrebbe guarire nel 90% dei casi. Purtroppo però la diagnosi è quasi sempre tardiva e la sopravvivenza a cinque anni non supera il 50%». Otto diagnosi di tumore all’ovaio su 10 vengono fatte quando il tumore è già in fase avanzata e questa diagnosi tardiva condiziona negativamente la prognosi: solo il 41% delle donne colpite da tumore all’ovaio nella prima metà degli anni 2000 è ancora in vita a cinque anni dalla diagnosi. Oggi, grazie ai nuovi farmaci antiangiogenici (bevacizumab), utilizzati in associazione alla chemioterapia, la sopravvivenza si è allungata. Ma purtroppo c’è ancora il problema della rimborsabilità, per il mancato riconoscimento da parte dell’AIFA, mentre lo stesso farmaco è riconosciuto e rimborsato da più di un anno nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti.
Paola Trombetta