«Ho smesso di bere il 15 Gennaio 2006. Sono andata una sera a una riunione di alcolisti anonimi e mi sono fatta aiutare. Avevo 28 anni, ed ero conciata molto male», racconta Violetta Bellocchio guardandomi dritto negli occhi. Il suo sguardo comunica sfida e paura insieme, proprio come quello che ha nella foto del risvolto di copertina, dove porta una felpa rossa col cappuccio in testa che sembra Cappuccetto Rosso. Violetta Bellocchio, 36 anni, giornalista e scrittrice (con Mondadori ha già pubblicato nel 2009 il romanzo Sono io che me ne vado), figlia della psicanalista Lella Ravasi, e nipote del regista Marco, ha appena pubblicato Il corpo non dimentica (Mondadori , Strade blu,– 276 pagine , 17 euro) . E’un memoir molto duro, ferocemente sincero. Perché Violetta è stata una binge drinker, si direbbe oggi. Una bevitrice compulsiva, in una parola: alcolista. Nel libro la chiama “Lei”. La Violetta alcolizzata, divorata dalla vergogna ma anche esaltata dalla sua danza sull’orlo dell’abisso. A distanza di tempo dal recupero, grazie anche al percorso di analisi, trova tutte le parole per raccontare quel buco nero lungo tre anni. Tre anni cancellati, dai 25 ai 28, quelli in cui beveva, tutti i giorni, e faceva cose di cui oggi non va orgogliosa. Una storia fatta di angoscia, di incontri sbagliati, sesso senza piacere, ricoveri in ospedale, bruciature, svenimenti, del terrore di chiudere gli occhi per l’ultima volta. Ma anche di una rinascita possibile, perché Violetta Bellocchio è riemersa dalla dipendenza. Forse, per liberarsene, la sola via possibile era trovare il coraggio di rievocarla e anche di ammettere tutto il fascino delle esperienze estreme.
Con “Lei” come va oggi?
«Lei mi ha quasi ammazzata. Riportandola alla luce, pensavo che l’avrei messa a tacere e mi sarei sentita liberata. Ma liberarmi di Lei non è invece la risposta. L’obiettivo è conviverci. Ha avuto modo di dire le sue ragioni, di farsi sentire, non mi fa più male. Adesso sono io che devo averne cura, ma non lascerò più che prenda il volante della mia vita, troppo pericoloso. Forse era questo che voleva: solo uscire dal bagagliaio, sedere sul sedile davanti accanto a me».
Il corpo non dimentica?
«No, il mio corpo non ha dimenticato niente. Porta i segni e le tracce del passato, anche quando il cervello vuole dimenticare, guardare avanti. Ogni cosa che ho fatto è dentro di me. Ho le mani le ossa, i denti, lo stomaco di “Lei”».
E’ proprio vero, come scrive, che non si diventa alcolizzati per caso
«Ciascuno di noi è complice del proprio destino. Non c’è altro, è solo una scelta. Non c’è stato un evento scatenante. Sono stata una figlia cercata e voluta. Ho ricevuto abbastanza abbracci in famiglia, i miei genitori sono adorabili, sul serio, E non hanno nessuna, nessuna, nessuna responsabilità in quello che mi è successo. Non è colpa loro, se la loro unica figlia è nata col bisogno di darsi una coltellata. Sono diventata alcolista perché, a differenza della altre droghe, l’alcol in Italia è legale, economico e venduto ovunque e perché mi è rimasto dell’infanzia il terrore sacro per l’eroina. Si sceglie di bere, perché provoca un sollievo momentaneo rispetto a una quotidianità vissuta come realmente insopportabile. Ma si è consapevoli che è pericoloso, lo si fa e basta, ci si distrugge lentamente. Come faccio a essere ancora viva? Me lo ripeto ogni giorno. Sono stata brava e fortunata. Per noi alcoliste, l’istinto è il nostro migliore amico, l’istinto di allontanarsi in un tempo da una situazione pericolosa. Per ogni incontro, ve lo giuro, ce ne sono venti che ho evitato, venti passaggi che non ho chiesto, venti taxi e quaranta autobus notturni che ho preso al loro posto. L’istinto ce l’hai dalla nascita perché un binger vuole sopravvivere: deve sopravvivere per morire ogni giorno di propria mano».
Perché è così difficile smettere?
«Stavo malissimo, fino a perdere i sensi, però mi piaceva. E’ difficile smettere perché è impossibile accettare che niente ci farà sentire mai più così. L’alcol è una fiamma che richiede devozione assoluta e affascina come una sirena: io ti farò stare bene, io ti esalterò, io ti prenderò e ti porterò via… L’alcol è un dio terribile che ha il potere di esaltare e di umiliare. E se Violetta l’ubriacona era adrenalinica e autodistruttiva, temevo guarendo di perdere quella scintilla, di diventare una linea piatta senza più l’ eccesso».
Si è fermata in tempo…
«Sono diventata una ex alcolista perché, dopo anni di collassi, ricoveri in ospedale, lavori persi, traslochi falliti e uomini che mi facevano schifo, avevo toccato il fondo. Un binger perde il proprio senso del decoro, non esiste più nessuna cosa che non possa essere fatta. La vergogna però torna indietro triplicata quando ci pensi che l’hai fatto davvero e allora ti fai schifo. E volti gli occhi per non guardare le bottiglie vuote dappertutto».
Quella intensità dove la mette, ora?
«Con una concentrazione massima sulle cose, che non siano più autodistruttive. Ho creato la rivista online “Abbiamo le prove”, un contenitore di storie non fiction, dove chiunque può raccontare la sua storia. A condizione di essere donna, italiana e molto sincera».
Non ha più toccato un bicchiere di alcol?
«L’ultimo bicchiere è stato il15 gennaio 2006: ho bevuto una birra media in un bicchiere di plastica da Mc Donald’s insieme a un cheeseburger, entrambi consumati per strada passeggiando lungo corso di Porta Ticinese, prima di presentarmi alla riunione degli alcolisti anonimi, nel retrobottega di una parrocchia milanese, in una stanza gelida in pieno inverno, e i neon bianchi attaccati al soffitto».
I momenti più terribili?
«Quando tutti ti dicono che ce l’hai fatta e tu hai paura che basti un passo per farti scivolare nuovamente indietro, in quell’abisso che forse abita dentro di te».
Lei racconta che il suo capo le offriva sempre da bere
«Mi avevano detto che sarebbe successo… che prima o poi nella vita di ogni ex alcolista arriva quello che ti ficca i bicchieri in mano, e con il gusto di stuzzicare la ferita cerca di farti bere. Ma così lo ammazzi. Perché l’alcolista non sarà mai in grado di fermarsi dopo il primo bicchiere. Come prende il primo bicchiere, si sviluppa in lui un’ossessione, una compulsione che lo condanna a bere. Allora, se qualcuno propone un brindisi, tu dici No grazie, oppure prendi il bicchiere, brindi come gli altri, poi appoggi il bicchiere e cambi tavolo».
Il tuo memoir è anche una denuncia: l’indifferenza della società verso il problema dell’alcolismo, ormai diffuso anche fra le donne.
«Questo paese non interviene, rimuove, rifiuta, ignora il problema. Finge di non vedere, in un silenzio imbarazzato. Se una persona è in disagio,viene scansata, evitata, oppure bollata. Ottenere un supporto, un sostegno, un incoraggiamento, può fare la differenza. Certo, è difficile parlare con noi, ma non ci si prova nemmeno. Sì, lo ammetto, quando la mia amica Claudia ci ha provato a intervenire, le ho detto “sto bene” ma almeno lei ci ha provato… Non stare zitta era una cosa che dovevo a Lei. A tutte le donne che vivono una qualche forma di dipendenza».
L’alcolismo è un problema diffuso. Che ruolo ha e qual è il peso sociale di un’organizzazione come gli “Alcolisti Anonimi”?
«È estremamente importante, perché il pensiero di non poter bere non dà respiro, consuma, e quello che si deve fare è sostituire questo pensiero, la depressione, l’ansietà che ne deriva, con un altro e con A.A. si può fare».
Il sentimento dominante nella vita precedente era stata la rabbia, l’invidia. E la vergogna. Oggi cos’è?
«Fiducia è forse una parola grossa, diciamo che sono meno diffidente. Ecco, voglio lasciarmi sorprendere dalla vita e da me stessa».
Cosa desidera?
«Vorrei innamorami. Trovare un fidanzato carino».
di Cristina Tirinzoni
BINGE DRINKING: LO SBALLO DEL SABATO SERA
Il consumo di alcol costituisce il terzo fattore di rischio nel mondo per carico di malattia e mortalità prematura. Eppure si sta diffondendo anche nel nostro paese il fenomeno delle “binge drinking”, le bevute compulsive (vino, birra e superalcolici) che si concentra nei fine settimana e coinvolge in particolare la fascia più giovane della popolazione, tra i 18 ed i 34 anni, uomini e donne. Parlare di abuso da alcol è però un tabù che spinge al silenzio e porta alla vergogna. Ma uscire dalla dipendenza è possibile. Il sito Internet www.unfinalemigliore.it vuole essere un aiuto concreto a tutti coloro che soffrono di alcoldipendenza, ai loro familiari, amici e conoscenti, per aiutarli a riscrivere la propria storia puntando a un finale migliore. Nasce per volontà di cinque società scientifiche impegnate da annui su questo fronte: Società italiana di Alcologia, Società italiana di Psichiatria, Società italiana Psichiatria delle Dipendenze, Federazione italiana Operatori dei dipartimenti e Servizi delle Dipendenze, Società italiana Tossicodipendenze.
«L’assunzione smodata e cronica di alcol induce una vera e propria modificazione del cervello», ha spiegato il professor Claudio Mencacci, Presidente della Società Italiana di Psichiatria. «A lungo andare, oltre a provocare sintomi cognitivi, come disturbi della memoria e dell’attenzione, l’alcol assunto a dosi elevate provoca disturbi gastrointestinali, tumori, malattie cardiovascolari, malattie polmonari, scheletriche e muscolari, disordini riproduttivi e danni prenatali, tra cui un aumento del rischio di nascite premature e basso peso alla nascita. Educare alla moderazione e alla prevenzione è un impegno sociale e culturale. Intervenire è possibile: oggi esistono percorsi integrati di cura che associano al percorso psicoterapeutico, trattamenti farmacologici innovativi».
(C. T.)