E Federica entra, da quel momento, in un tunnel da cui comincerà ad uscire molti anni dopo. La sua voce può essere quella di una delle tantissime donne che ogni anno vengono colpite da schizofrenia e vedono trasformarsi una vita normale in una sorta di cabina angusta e buia, con una piattaforma rotonda barcollante sotto i piedi, davanti una balaustra gialla alla quale avvinghiarsi istintivamente; intorno soffi d’aria che colgono all’improvviso e un nome (il proprio) perennemente sussurrato che entra nella mente, quasi impossessandosene, mentre sguardi inquisitori si puntano addosso. Come l’esperienza sensoriale che si vive entrando in un truck (ideato da Janseen Italia e ubicato a Milano qualche settimana fa in occasione dell’evento “Menti in movimento. Esperienze dentro la schizofrenia”) che simula – per far conoscere e capire – ciò che può avere provato Federica o chiunque soffra e conviva con la schizofrenia. Un disturbo psichico che colpisce in Italia 245 mila persone, di cui il 54% donne che la sperimentano in maniera diretta (21%) o assistendo in famiglia un congiunto (33%) con un peso umano, sociale ed economico superiore a qualsiasi altra malattia cronica. “Il mio primo ricovero – racconta ancora Federica – è stato il 30 Agosto del 2000 e mi ricordo solo la disperazione negli occhi degli altri e io che non capivo realmente cosa mi stesse succedendo”. La vita così va in pezzi anche a causa dell’insorgenza della malattia: precocissima, tra i 18 e i 28 anni, ma spesso misconosciuta per le iniziali manifestazioni – solitudine e chiusura in se stessi, riduzione delle performance scolastiche, apatia – attribuite al difficile passaggio all’età puberale. Poi in un anno o poco più la malattia esplode con sintomatologie gravi nelle fasi acute (allucinazioni, ragionamenti distorti, elucubrazioni, dissociazione dalla realtà) e a portarne il peso nella maggior parte dei casi sono le donne nelle vesti di care-giver. Un’esperienza difficile e complessa di fronte alla quale in 2 casi su 5 si sentono impreparate o poco informate sulle patologia – come rivela un’indagine condotta dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (O.N.Da.) su un campione di 600 donne tra i 25 e i 52 anni – e costrette a forti rinunce, perché “attanagliate” dalla malattia. Una sensazione tuttavia che non muta anche nel caso in cui loro stesse siano protagoniste dirette della malattia che altera l’immagine del sé, sacrifica l’esperienza della maternità (37%), peggiora la qualità della vita (32%), o ancora mina l’autonomia (29%), la vita sociale e comunitaria (25%).
«La schizofrenia – dichiara il Professor Claudio Mencacci, Presidente della Società Italiana di Psichiatria (SIP) – è una malattia, diversamente da quanto si affermi, comprensibile e curabile, ma occorre che sia individuata e trattata precocemente. Invece il più delle volte, chi ne è portatore, convive con essa in media per oltre due anni prima di ricevere una giusta diagnosi pur avendo consultato degli specialisti». Ridurre il gap che separa la diagnosi dall’inizio della terapia, consente di andare oltre la guarigione parziale o un efficace controllo della malattia. «Migliora le possibilità di trattamento – aggiunge il Professor Carlo Altamura, Presidente Eletto della Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI) – infatti più la psicosi procede, maggiori sono i danni che provoca in chi ne soffre. In un anno, un malato psicotico, perde quasi il 5% del volume del cervello».
Un danno superabile perché curare efficacemente (se non di guarire) è sempre più possibile per la moderna psichiatria, grazie all’approccio terapeutico multidimensionale integrato delle terapie che si avvale della combinazione di farmaci, psicoterapia e interventi psicosociali e riabilitativi uniti a una terapia familiare psicoeducativa.
«Nel 60% dei casi il miglioramento è notevole – commenta il Professor Emilio Sacchetti, Presidente Eletto della SIP – e consente di raggiungere una buona qualità di vita anche con apprezzabili possibilità di inserimento socio-lavorativo. È necessario, però, che la persona malata riceva ascolto, che sia responsabilizzata nel percorso di cura e non resti isolata». La terapia d’élite, nella schizofrenia, è comunque rappresentata dall’assunzione regolare dei farmaci antipsicotici. Ma questo è uno dei tanti problemi che pone la malattia: infatti l’aderenza della terapia nel 40% dei casi è scarsa e di conseguenza anche gli esiti. “Uscita dall’ospedale ho iniziato il mio percorso che è durato anni: anni bui, senza vittorie, solo dolore – aggiunge Federica – che si univa ad altro dolore: problemi con l’alcool, problemi di lavoro, problemi in famiglia, nonché smesso e ripreso decine di volte con la cura: pensavo di guarire smettendo di prendere le medicine”. «Al momento non vi sono grosse novità terapeutiche – aggiunge ancora il Professor Sacchetti. I farmaci a disposizione sono diversi ma occorre ottimizzare l’utilizzo. Fra i più efficaci, vi sono i depot long acting (iniezioni) che permettono una vita libera da crisi maggiore, mentre siamo in attesa di “tailored therapies” che si baseranno su marcatori genetici ai quali potranno essere aggiunti anche dei nutraceutici (farmaci sui base vegetale)». La predisposizione genetica e la familiarità sono, infatti, i fattori chiave nello sviluppo della malattia su cui possono però agire anche componenti ambientali e lo stile di vita: tra i principali l’abuso precoce di droghe (cannabis) e alcol. «Non è escluso che sui fattori ambientali – conclude il Professor Filippo Bogetto, Presidente della SOPSI – possa giocare un ruolo rilevante anche la crisi economica e sociale e il conseguente aumento dell’insicurezza e della precarietà sociale o la fragilità delle relazioni familiari e sentimentali».
Perché ciò non avvenga è importante che l’ammalato e i familiari siano seguiti e supportati da centri di ascolto specializzati come Progetto ITACA (www.progettoitaca.org) o l’Associazione Italiana Tutela Salute Mentale (A.I.T.Sa.M.: www.aitsam.it), per costituire una rete sinergica con i servizi preposti, aiutare a sconfiggere il pregiudizio di inguaribilità che avvolge la malattia e insegnare a gestire ansia e sofferenza che la malattia – per chi la vive o la assiste – porta con sé, a reintegrarsi nella società. “Il 19 aprile del 2007 ho discusso al tesi e con il massimo dei voti mi sono laureata. Ora il lavoro rappresenta per me un punto fermi nella mia vita. Ho lottato per anni per questo: per la normalità e per essere felice ugualmente nonostante i farmaci, le terapie e la paura – conclude Federica. La paura di essere ancora giudicata per il mio problema, la paura di sentimi male, la paura di sentirmi ancora sola. Adesso non mi sento più sola. Anche perché in questo lungo percorso ho incontrato persone che mi hanno aiutato: ho capito che una possibilità va data a tutti. Un solo motto mi ha porato avanti in questo percorso – non arrendersi mai – di fronte a niente, soprattutto di fronte a se stessi”.
di Francesca Morelli