“Successo è sapere che sei arrivato al top”. Dice proprio così il Briatore interpretato da Crozza. È un gran pezzo di satira di costume, bonario e feroce, stralunato e più vero del vero. Qual è la vostra definizione di successo?
<Alla base di questa mitica parola, c’è un equivoco: oggi si intende il successo come avere notorietà, come l’apparire in tv, essere famosi e ricchi… nient’altro. Chi non riesce a conquistare la vagheggiata vetta si sente un fallito. In realtà, come suggerisce l’etimologia, la parola “successo” è un participio passato del verbo latino “succedere”, che letteralmente significherebbe “venire dopo”. E’ dunque semplicemente il risultato di ciò che si è fatto, nulla di più e nulla di meno. Qualcosa che si riconosce dentro di sé solo da un fatto: che poi tutto è diverso, senza rimedio».
Nel libro parlate di successo Uno e successo Due…
<Abbiamo riscontrato due modi diversi di vivere il successo: uno più intimo, l’altro più rivolto all’esterno. Il successo Uno non è altro che l’espressione più piena e completa della nostra necessità interiore, qualcosa che è dentro di noi. La si scopre per caso, magari mentre si sta facendo o progettando altro. Tutte le persone che abbiamo intervistato si esprimono come se fossero guidati da qualcosa di invisibile e di ineluttabile. Le sentiamo ripetere frasi del tipo: “Non avrei potuto fare altro”. E accanto alla necessità, queste persone possiedono una sorta di innamoramento, di trasporto quasi erotico per la necessità stessa. Uniscono alla pazienza infinita di Ananke, l’ardore implacabile di Eros. Nella maggior parte della nostra vita, Eros e Ananke sono per lo più separati: entrambi presenti in noi come parti essenziali, non si incontrato, oppure, se si incontrano, lottano. Ciò che dobbiamo fare infatti è spesso in contrasto con ciò che amiamo. O almeno ci sembra>.
C’è un legame dunque fra successo Uno e autorealizzazione?
<Il grande psicoanalista americano James Hillman diceva: non esiste una mediocrità dell’anima, i due termini sono incompatibili. Ciascuno di noi ha una vocazione interiore, un talento, che lo rendono unico e potenzialmente una persona di successo. Hillman ne parla nei suoi numerosi scritti e saggi filosofici attraverso una teoria insolita, quella della ghianda, secondo la quale ogni anima porta in sé un progetto, da realizzare sulla terra, come il destino della quercia è già contenuto nella piccola ghianda. La ghianda è il nostro codice dell’anima, quello che gli antichi greci chiamavano Daimon, quel quid che spinge le anime ad agire in un determinato modo, a fare determinate scelte, a intraprendere determinate strade. Noi siamo un movimento costante, un susseguirsi di successi intesi come successi Uno. Eventi cruciali, pietre miliari nella formazione del nostro essere, di cui nessun altro si accorge, campane che suonano solo per noi. Poi ogni tanto uno di questi successi Uno, per motivi casuali e inspiegabili, si trasforma in successo Due. Il mondo ci acclama, diventiamo finalmente qualcuno, identificati dagli altri con quel risultato>.
Valore e riconoscimento del valore a volte faticano a incontrarsi….
<Puoi avere successo e non diventare famoso. Puoi essere popolare ma non sentirti di successo, perché non hai raggiunto quelli che sono i tuoi obiettivi. Mentre la popolarità richiede riconoscimento, ma non è una misura del valore. Le persone che abbiamo intervistato sembrano spesso emanare questo senso di sprezzatura verso la notorietà: non è che la rifiutino o la disprezzino, piuttosto non le danno importanza. Saper dissociare il proprio valore dal riconoscimento è un sano meccanismo. Il nostro valore è indipendente da ciò che gli altri pensano di noi. Spesso invece ci diamo valore se ce lo danno gli altri, ma quello che si ottiene è un surrogato di autostima. Autostima non significa che non ci sentiamo più fragili, o timide, o mai completamente a nostro agio: significa che possiamo stare anche con le nostre debolezze, che accettiamo anche il nostro limite, che siamo consapevoli del nostro valore>.
Cosa fa la differenza?
<Il discrimine fra gli individui non è quindi fra chi ha talento e chi no; neppure fra chi è consapevole del proprio talento e chi no. Il vero discrimine è fra chi sceglie di mettersi alla ricerca delle proprie possibilità e chi ne ha invece paura. Il più delle volte mentiamo a noi stessi, perché abbiamo paura di sbagliare e di non essere all’altezza e quindi preferiamo non provarci, piuttosto che metterci in gioco, rischiare di fallire e sentirci dei perdenti. Come raccontano le storie di questo libro, il successo bacia soprattutto chi accetta la propria diversità, invece di vergognarsene, e la propria vulnerabilità. Siamo sempre più convinte, che ciò che fa la differenza fra coloro che si sono rivelati eccellenti e coloro che hanno ancora della strada da percorrere, è il modo in cui i primi hanno utilizzato il proprio senso di inadeguatezza… per fare cose straordinarie. Non è facile. Quanti di noi sono cresciuti nella convinzione, spesso alimentata da quello che genitori, insegnanti o amici ci hanno detto per anni, specialmente negli anni cruciali dell’infanzia e dell’adolescenza, di essere “sbagliati”. Abbiamo interiorizzato quell’opinione e perciò crediamo di non meritare successo>.
C’è un modo diverso di vivere il successo da parte delle donne?
<Per le donne sembra che esista ancora una sorta di timore o di freno a mano nell’elogiare la loro grandezza e il loro successo, come se avessero la sensazione di non meritare ciò che hanno raggiunto. Il secondo problema è che a volte non sanno come trasformare il loro talento in situazioni, decisioni contatti, azioni, comportamenti che diano loro quello che desiderano ottenere. Non sanno come mettere in relazione le loro abilità con le opportunità>.
Come possiamo tradurre queste riflessioni in consigli pratici?
<Perché non provare a esplorare veramente chi siamo? Perché non proviamo a chiederci: “Qual è la mia essenza? Qual è il mio talento? Che cosa mi rende unica e originale? Scoprire ogni giorno chi siamo e avere il coraggio di esserlo è la vera sfida>.
di Cristina Tirinzoni