Il titolo è suggestivo: evoca l’immagine di una divinità femminile primordiale, presente in quasi tutte le mitologie, che rappresenta la capacità di generare, di dare nutrimento e che ha un legame con la natura e la terra. Sembra però simboleggiare anche una potenza oscura, magica, soprannaturale, dotata di un potere temibile. Potrei definire con una sola parola, stordimento, l’emozione che mi ha provocato il visitarla. Perché stordimento? Per le tante opere provenienti da tutto il mondo, eccezionalmente riunite: oltre 400, di 139 artisti, scrittori e registi, proposte in un percorso cronologico, stanza dopo stanza (ben 29!) dal Novecento a oggi. Poi stordimento perché “La Grande Madre” è un’esperienza emozionale esplosiva: un paesaggio di anime e corpi, di identità e storie, individuali e collettive, affetti profondi e rifiuti spietati, paure, ansie e sogni, passione e coraggio. Una mostra di sensazioni viscerali, emozioni contraddittorie e di complessa assimilazione (per questo consigliamo di munirsi del fascicoletto distribuito all’inizio del percorso, per meglio conoscere opere e autori).
Difficile davvero riassumerla per il suo andamento nel tempo e nei meandri di un tema che è quasi impossibile esaurire. Racconta la maternità (che continua a mutare secondo lo sguardo dell’artista), il suo potere, il suo rifiuto, lo sfruttamento, il suo essere prigione, limitazione e gioia, obbligo sociale, colpa e virtù, attraverso i movimenti artistici, le artiste e gli artisti del ‘900.
Un progetto, dunque, con tanti livelli di lettura: non solo come riflessione sulla maternità, ma anche sulla donna e le sue evoluzioni, la trasformazioni della sessualità, dei generi, della percezione del corpo femminile e dei suoi desideri. Visitare i tanti saloni della mostra significa ripercorrere le tappe di un lungo cammino compiuto dalle donne, dagli inizi del Novecento fino a oggi, per affermare i propri diritti e la propria identità, la pretesa di riconoscimento e di rispetto.
La mostra allestita a Palazzo Reale (si può visitare fino al 15 novembre), e promossa dal Comune di Milano, è stata ideata e prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi – presieduta da Beatrice Trussardi – con la direzione artistica di Massimiliano Gioni. «“La Grande Madre” », spiega Beatrice Trussardi, «racconta non solo della donna che dà vita al figlio, ma anche e soprattutto della donna che partorisce se stessa, che dà a se stessa nuova vita». Un percorso di liberazione in cui la donna, da semplice generatrice di vita e madre, diventa un soggetto complesso, artefice del proprio destino e libero di decidere della propria vita, al di là dello stereotipo in cui lo sguardo maschile l’aveva da sempre relegata. Un progetto di vita in cui la maternità diventa una libera scelta, non più solo un destino biologico.
Una mostra sicuramente ricca di stimoli che non risparmia nulla: immagini forti, anche dure, fantocci e feticci; ventri materni, donne meccanizzate, feti seguiti nei mesi di vita intrauterina, corpi perturbanti, spesso minacciosi; i video della giovane artista svedese Nathalie Djurberg tra sesso, violenze, fantasie erotiche, con protagonisti grotteschi, pupazzetti modellati dall’artista con la plastilina colorata, e l’acquarello di Méret Oppenheim, “Votivbild”, dove una donna tiene in braccio il cadavere di un piccino dal collo stretto da una lunga sciarpa, opera alla quale la stessa artista aveva affidato il suo desiderio di restare senza figli, in modo da potersi dedicare totalmente all’arte. L’ambiziosa sfida della mostra sta qui, nell’aver voluto presentare la maternità anche nei suoi aspetti più oscuri e feroci, inquieta e inquietante. Sotto il fil rouge della maternità si affrontano temi turbolenti quali la violenza domestica, le identità mutanti.
La mostra si conclude con alcune opere che guardano alla genetica post-umana, in cui tecnologia e biologia aprono prospettive inedite che scompaginano la distinzione tra biologia, esperienza della maternità e nuove possibilità di maternità che trascendano le categorie tradizionali di coppia e famiglia, secondo geometrie inedite, in cui non si sa più cosa vuol dire essere uomo e essere donna, una sorta di commistione di generi dai confini labili. Come le opere di Sarah Lucas che compone sculture e bricolage dalle forme al contempo maschili e femminili. O il video realizzato da Pippilotti Rist in cui il corpo della donna quasi si smaterializza e diventa un puro fluire di informazioni digitali.
A completare il già ricchissimo percorso espositivo, anche installazioni importanti come la Venere a palloncino di Jeff Koons, Balloon Venus, per esempio che ha creato una Venere contemporanea cromata, scintillante come un lavoro d’ingegneria aerospaziale e l’installazione dell’artista di origini giamaicane, trasferitosi a New York, Nari Ward, Amazing Grace: 280 passeggini dismessi raccolti per le strade di Harlem, accompagnati dal gospel di Mahalia Jackson.
Si esce da Palazzo Reale con un senso di vertigine, un po’ confuse e affaticate, con l’eco delle mille voci possenti dell’universo femminile che scuote l’animo. E lo invita alla riflessione.
di Cristina Tirinzoni