LA VERA TRAGEDIA E’ LA VIOLENZA CHE SI CONSUMA DENTRO CASA

Il 25 novembre ricorre la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, che è stata istituita nel 1999 dall’ONU per dare voce e spazio a un dramma di portata mondiale. A un anno dall’approvazione della legge sul “femminicidio”, a che punto è l’Italia nella lotta alla violenza di genere? Per saperne di più abbiamo intervistato la dottoressa Alessandra Kustermann, una figura chiave in questo campo. Ginecologa, primario del reparto di Ginecologia e Ostetricia della Clinica Mangiagalli di Milano, Kustermann è fondatrice e responsabile di SVSeD – Soccorso Violenza Sessuale e Domestica presso la Clinica Mangiagalli, il primo in Italia (è nato nel 1996) all’interno di un ospedale pubblico, il Policlinico di Milano. Vi collaborano ginecologhe, infermiere, ostetriche, medici legali, assistenti sociali, psicologhe, avvocati e volontarie dell’associazione SVS Donna Aiuta Donna onlus. «Siamo un’équipe molto compatta», racconta la dottoressa. «In particolare nei casi di maltrattamenti domestici è proprio a un Pronto Soccorso che accede la vittima, anche se non sempre è in grado di trovare le parole per dire la vera causa delle sue lesioni».

Cosa è emerso in questi anni dal suo osservatorio?
«Il vero allarme arriva dalla violenza più nascosta, quella che si consuma dentro casa, una piaga che finora è sempre stata arginata, fingendo non esistesse. E’ invece un fenomeno in aumento: i casi arrivati da noi sono passati da 186 del 2008 ai 382 del 2013. Dati che rivelano però un coraggio maggiore nel denunciare, nel ribellarsi a situazioni che magari fino a qualche anno fa venivano accettate passivamente. Il sommerso resta però elevatissimo: il 90% dei casi di violenza e di abusi non vengono denunciati e questo ci dice che siamo solo la punta dell’iceberg». 

Alla luce di recenti fatti di cronaca, ritorna anche l’allarme stupri…
«Sono episodi gravissimi. Ma le dico una cosa: in realtà gli stupri per strada sono in diminuzione. Ci sono dati del ministero dell’Interno che lo dimostrano. Il pericolo maggiore non è la strada, ma la casa… e l’assalitore è conosciuto: un partner o un ex compagno che vediamo purtroppo ogni giorno. Considerando il totale dei casi arrivati al nostro centro, le violenze sessuali sono sempre state in maggioranza rispetto alle violenze domestiche, ma dal 2013 la situazione è cambiata: le violenze domestiche ora rappresentano il 50,2% dei casi».

Quali sono gli ostacoli che impediscono alle donne di denunciare le violenze subite?
«La violenza ha molti modi di manifestarsi, quella fisica è solo uno dei tanti. La violenza può assumere anche forme più sottili, psicologiche, e sono più difficili da riconoscere nelle aule giudiziarie, dalle forze dell’ordine e dal servizio sociale. C’è oggi anche molta violenza economica. La paura delle donne è non sapere come fare a mantenersi al di fuori del proprio contesto, soprattutto se hanno figli. Ogni storia ovviamente è a sé. Generalmente la violenza fisica è graduale: i primi episodi sono caratterizzati da spintoni, braccia torte, per poi arrivare a schiaffi, pugni e calci o e all’uso di oggetti contundenti e armi. In questo stadio, per sottolineare il proprio potere, l’uomo può agire anche la violenza sessuale. La donna non reagisce, l’aggressione da parte del partner le provoca un senso di tristezza e di impotenza, può protestare ma non si difende. Spesso nella donna prevale anzi il senso di colpa per non essere stata come l’uomo voleva o si aspettava. A questo di solito segue poi una fase in cui il partner violento chiede scusa, tornando a essere dolce e premuroso con lei. E’ frequente che l’uomo prometta di “fare tutto il possibile per cambiare” affinché la donna non lo lasci. Sono usuali anche le minacce di suicidio. La donna accoglie il partner e le sue false richieste d’aiuto per cambiare, pensando di essere l’unica in grado di poterlo aiutare e salvare. Quando la violenza è radicata, i cicli si ripetono e come una spirale con il tempo accelerano di crescente intensità. Solo dopo il ripetersi di vari episodi di maltrattamento, la donna prende consapevolezza che non può né controllare, né cambiare la situazione e sviluppa una motivazione più forte per uscire dalla relazione violenta. Riconoscersi come vittima di maltrattamenti è il primo passo verso la guarigione. Spesso il più difficile».

L’anno scorso il governo Letta emanò una legge contro la violenza di genere: cos’ha cambiato questo decreto e cosa si può fare ancora? 
«Con la nuova legge sono state introdotte più tutele: il legame sentimentale con la vittima (convivenza o vincolo matrimoniale) diventa un’aggravante. Così come nei casi in cui i maltrattamenti vengono commessi in presenza di minorenni. E queste aggravanti possono portare a pene, specialmente se si sommano episodi di violenza sessuale, anche lunghe. Finalmente colui che maltratta può essere arrestato in flagranza e soprattutto il pubblico ministero può chiedere al giudice di emettere un provvedimento urgente per vietare all’indiziato di restare nella casa familiare e di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla sua vittima. Questo provvedimento è quello che ci chiedono da sempre le persone maltrattate: che sia il colpevole ad andarsene di casa e non loro a doversi rifugiare in una comunità, per essere protette da lui. Peccato però che gli arresti in flagranza siano stati davvero pochi finora! E’ un punto di criticità, perché bisogna dimostrare che non si tratta del primo episodio. La flagranza non può essere determinata solo se il soggetto ha appena colpito la vittima: bisogna stabilire che si tratta di un gesto abituale. Anche per gli stalker servirebbe creare un “registro elettronico” per raccogliere le denunce a carico della stessa persona, anche se verbalizzate in luoghi differenti. Così si potrebbe ripercorrere la storia passata del soggetto: nell’85% dei casi gli autori sono recidivi».

Concretamente cos’altro si può fare?
«Per poter contrastare la violenza, è necessario creare una rete di sostegno e accoglienza delle donne (in linea con la Convenzione di Instanbul del 2011). Ci sono realtà che da decenni portano avanti la loro battaglia quotidiana per cambiare le cose: i centri antiviolenza e le case di accoglienza dove si può trovare ascolto, gruppi di auto-aiuto, consulenza psicologica e legale, patrocinio gratuito. Potremmo rassicurare le donne se nel nostro Paese ci fossero le 5.700 Case Rifugio previste dalla direttive europee, per ospitalità e protezione, invece ce ne sono solo 500 e molte sono a rischio chiusura. E i finanziamenti che arriveranno non bastano».

E forse anche gli operatori sociali e le forze dell’ordine andrebbero maggiormente sensibilizzati al problema… 

«L’immediata protezione delle donne vittime di violenza non è ancora garantita in maniera continua e omogenea sul territorio italiano. La crisi economica incide in modo evidente e quindi i programmi, finché restano scritti, anche se previsti da una legge non vedranno mai la luce. I finanziamenti per le iniziative di sensibilizzazione sono pochi, viene fatto ancora troppo poco per la prevenzione Servirebbe anche preparare meglio il personale. Gli operatori sanitari devono imparare a riconoscere i segnali non espliciti: molte donne raccontano ancora di “aver sbattuto contro la porta”. Quindi più formazione, informazione e sensibilizzazione per operatori sanitari, psicosociali, forze dell’ordine, polizia locale, magistrati, perché ancora si sottovaluta la pericolosità dei comportamenti degli autori di violenza».

Ha senso affrontare la questione in termini di pene più pesanti? O bisogna spostare l’attenzione su altri aspetti?
«Il maltrattamento è sì un reato grave, che deve necessariamente prevedere una pena, ma è un reato che si può evitare di compiere nuovamente. Per questo le leggi non dovrebbero solo cercare di aumentare la pena, ma prevedere percorsi di rieducazione, iniziando proprio all’interno delle carceri. E’ necessario coinvolgere gli uomini nel riconoscimento del maltrattamento e nella stigmatizzazione di commenti sessisti, i pregiudizi sociali sui limiti femminili, il deprezzamento costante della differenza di genere, il tentativo di perpetuare un ruolo femminile subalterno. Sì, anche gli ammiccamenti tra maschi, persino la “solidarietà” maschile da bar, costituiscono le premesse del problema della violenza. E’ quindi necessario che tra gli uomini cominci ad aprirsi una riflessione. Oggi i centri e gruppi di ascolto che aiutano gli uomini violenti sono ancora troppo pochi in Italia: solo 15! La loro esistenza, spesso precaria per i tagli ai fondi sociali, va tenuta in considerazione».

Cambiare una cultura diffusa è ben più difficile che inasprire le pene per i colpevoli…
«Solo se la prevenzione della violenza inizierà nelle scuole, direi fin dalle scuole materne, si potrà risolvere il problema della uguaglianza di diritti e doveri tra uomini e donne nella coppia e nella società, altrimenti la differenza tra i due generi continuerà a determinare la diffusa consapevolezza che il predominio maschile è “normale”. Prima dell’educazione sessuale i ragazzi dovrebbero ricevere un’educazione sentimentale. Perché anche le ragazze crescono secondo lo stereotipo della donna che deve essere posseduta e dominata, così come l’uomo viene ingabbiato in quello del maschio dominatore».

In tutto questo i media hanno qualche responsabilità?
«Sì, basti pensare a come vengono date le notizie: si descrive il singolo episodio di violenza fornendo giustificazioni al partner: l’uomo abbandonato, l’uomo in crisi, che ha perso il lavoro, che va fuori di testa. Gli uomini che picchiano o addirittura uccidono la propria compagna NON sono dei pazzi. Si tratta di persone normali con una concezione fortemente maschilista. D’altra parte, non possiamo nascondere che proprio la maggiore eguaglianza conseguita dalle donne sul lavoro e nelle professioni può suscitare pericolosi atteggiamenti di reazione».

Dopo tutte queste considerazioni molto realistiche, un’ultima domanda: “C’è ancora spazio per la speranza?” 
«Il messaggio da inviare è che uscire dal trauma della violenza si può: bisogna chiedere aiuto. Non c’è giustificazione alla violenza. Certo non ci sono ricette standard, né schemi, certezze, soluzioni facili e immediate. Una cosa è certa: nel lungo cammino per ritrovare fiducia in se stesse, le donne non sono sole. Esiste una rete di aiuto locale che può aiutarle e alla quale devono rivolgersi con fiducia».

Per info: SVSeD – Soccorso Violenza Sessuale e Domestica, Clinica Mangiagalli – Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano (tel. 02.55038585), attivo H24.

di Cristina Tirinzoni

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