Fabiana, uccisa a sedici anni dal fidanzato 17enne: prima accoltellata e poi bruciata viva. Spesso la picchiava, raccontano adesso gli amici. Ilaria, strangolata mentre tornava a casa dal lavoro. Alessandra, accoltellata per strada. Maria Immacolata, morta a seguito dell’ennesimo pestaggio da parte del marito. Trentacinque anni di matrimonio e di violenze che tutti conoscevano. Sono le ultime vittime del femminicidio in Italia: dall’inizio dell’anno sono già 36! La lista delle donne uccise, ferite o picchiate selvaggiamente per mano di uomini, fidanzati, compagni, mariti o ex, continua ad allungarsi. I dati raccolti dai centri antiviolenza aderenti a D.i.re (Donne in rete contro la violenza: www.direcontrolaviolenza), quindi parziali rispetto al fenomeno nel suo complesso, illustrano la gravità della situazione: nel 2012 sono state circa 15mila le donne che hanno chiesto aiuto perché vittime di maltrattamenti da parte di uomini. Nel 2011 sono state 13.140. A subire le violenze sono donne di ogni età, estrazione culturale e professione. E spesso la violenza estrema si è manifestata dopo persecuzioni e minacce da parte di questi uomini e nonostante la denuncia delle vittime. Ma quante donne devono ancora morire? Ecco perché vogliamo parlarne ancora. Perché come ha detto la presidente della Camera, Laura Boldrini, nel suo discorso di insediamento “dovremo tutti farci carico delle donne uccise da violenza travestita da amore”. Di questo abbiamo parlato con Titti Carrano, avvocato, presidente dell’associazione D.i. re che raccoglie 63 Centri antiviolenza e Case delle donne su tutto il territorio nazionale, e che ha di recente organizzato un convegno per dare risposte concrete al dramma della violenza domestica sulle donne.
Ormai è un’emergenza permanente e quotidiana: come fermare tutta questa violenza?
«E’ ora di finirla con la logica dell’emergenza: il problema è strutturale e culturale, ha radici stratificate e profonde. La violenza è una costante di tutte le società in cui è radicata ancora una sottocultura sessista e misogina. Bisogna prenderne atto: la violenza alle donne è un problema culturale. Ed è proprio questo il nodo della questione: le donne vengono uccise perché sono considerate oggetti di proprietà. E nel momento in cui cercano di spezzare questo legame – perché vogliono un’altra vita o perché si sono innamorate di qualcun altro – scatta la furia. La maggior parte delle violenze viene posta in essere da uomini (mariti, ex fidanzati o corteggiatori) che non accettano la fine di una storia d’amore, da uomini che confondono il sentimento con il possesso, e che vogliono esercitare potere attraverso la violenza. La violenza nasce sempre come un attacco alla libertà della donna».
Nel giorno dei funerali di Fabiana, l’ennesima vittima della ferocia maschile, la Camera dei deputati ha finalmente approvato all’unanimità la ratifica della Convenzione di Istanbul, “a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza, eliminando al contempo ogni forma di discriminazione e promuovendo la concreta parità tra i sessi, rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne”. Cosa ne pensa?
«La ratifica rappresenta solo un primo, doveroso, passo di un percorso molto complesso che deve concretizzarsi con azioni reali, interventi coordinati per proteggere le vittime, ed educazione al rispetto dell’altro sesso. Ora il testo passa al Senato, dove ci auguriamo venga approvato in tempi altrettanto rapidi. Finora le risposte istituzionali sono state insufficienti. Non abbiamo più notizie invece della task force annunciata dal ministro della Pari opportunità, Josefa Idem, ovvero quell’azione coordinata tra i ministeri, che si tradurrebbe in protocolli d’intervento per polizia, uffici giudiziari, pronto-soccorso. Rimane aperta la questione degli stanziamenti. E’ necessario dare forza alla rete dei centri antiviolenza, che sono gli avamposti di qualunque battaglia seria sul tema, diversamente da quanto fatto finora. Sono ormai numerosi i centri dove le donne, vittime della violenza domestica, trovano rifugio e assistenza: realtà che sopravvivono solo grazie al volontariato e rischiano di chiudere proprio per mancanza di fondi. Nel resto d’Europa, la maggior parte dei Paesi stanzia ogni anno, per l’attuazione dei piani antiviolenza nazionali, milioni di euro, alimentando un dialogo continuo tra istituzioni e centri. Secondo un calcolo dell’Unione europea, ogni Paese dovrebbe prevedere un centro antiviolenza ogni 10mila abitanti e una casa d’accoglienza ogni 50mila abitanti. In Italia ne servirebbero circa 6000: ne esistono solo 500, contro le 7000 della Germania, 4500 della Spagna e 3890 dell’Inghilterra. Anche la Turchia è più avanti di noi, con 1478 centri a disposizione. Si tratta di una vistosissima lacuna, ancora più grave se contiamo le vittime del femminicidio: una ogni tre giorni. Impossibile stabilire quante di loro avrebbero potuto scampare alla morte, ma è ormai assodato che il lavoro dei centri anti-violenza è un’ancora di salvezza per prevenire il peggio».
La pubblicità è stata chiamata sul banco degli imputati anche dalla presidente Laura Boldrini che ha fatto della lotta alla violenza di genere una bandiera sin dal suo discorso di insediamento alla Presidenza della Camera, chiedendo che si ponga un limite all’utilizzo del corpo delle donne per pubblicizzare qualsiasi prodotto. “Se smetti di essere rappresentata come donna e vieni rappresentata esclusivamente come corpo-oggetto, il messaggio che passa è chiarissimo: di un oggetto si può fare ciò che si vuole. Da lì alla violenza il passo è breve”.
«Siamo d’accordo con lei: la battaglia contro la violenza deve essere affrontata anche attraverso una rivoluzione culturale, che promuova l’affermazione di una cultura del rispetto. Non si possono combattere le violenze di genere se non si arriva a insegnare ai bambini una diversa grammatica della relazione, nella consapevolezza che il conflitto si può gestire senza ricorrere alla violenza. L’uso del corpo delle donne da parte della pubblicità, che tende a rappresentare sempre e comunque la donna come qualcosa da possedere, è inaccettabile. E’ mai possibile che i media italiani non riescano a liberarsi degli stereotipi sessisti nella rappresentazione del corpo femminile? Un altro concetto che non dovrebbe passare riguarda quello che i mass media si ostinano a voler chiamare “raptus”. Di improvviso non c’è nulla: i femminicidi sono spesso ampiamente annunciati! Delle donne morte nel 2012, 7 su 10 avevano chiesto aiuto, denunciando o rivolgendosi al 118. E’ inaccettabile che troppe donne per paura o per sfiducia non denuncino le violenze subite e quando trovano la forza non vengano adeguatamente protette».
Servirebbero dunque nuove leggi?
«Non sono necessarie nell’immediato nuove leggi, anche se l’impianto normativo sicuramente può essere migliorato. E’ importante semmai applicare la legge in modo capillare sul territorio: per esempio, i provvedimenti di allontanamento dello stalker in alcuni casi vengono concessi in 48 ore, in altri casi negati. Oggi lo stesso segnale trova risposte diverse secondo gli interlocutori: in alcune città c’è una grande sensibilità, interventi immediati e sistematici. In altre non è così. Fare fronte alla violenza richiede soprattutto investimenti, professionalità, grande organizzazione. Tutti oggi vogliono occuparsi di violenza: ma le competenze sono indispensabili se si vogliono ottenere risultati. La formazione è fondamentale, per tutti gli attori interessati a sostenere le donne vittime delle violenze: medici, magistrati, infermieri, psicologi, assistenti sociali e forze dell’ordine. Nelle procure e nei pronto soccorso (dove, purtroppo, prima o poi tutte le vittime di violenza passano, magari accompagnate proprio dal marito o compagno violento), sarebbero necessari team specializzati. Per cambiare la situazione servono interventi mirati e strutturati. Come quelli previsti dal protocollo d’intesa che D.i.re e Anci (Associazione nazionale comuni italiani) hanno stipulato a margine del convegno. Tra questi: l’inserimento dei centri antiviolenza nei piani di zona, la formazione della polizia municipale, l’elaborazione di linee guida rivolte agli operatori del servizio sociale. Inoltre l’Anci si impegna a sensibilizzare i Comuni a esaminare attentamente le pubblicità, invitandoli a non dare l’autorizzazione a cartelloni che offrano un’immagine mercificata o denigratoria delle donne».
MA QUALE GIUSTIZIA?
Aumentano le denunce, ma per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia . E’ il grido di allarme degli avvocati e delle operatrici della Casa di accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano (Cadmi) che, dati alla mano, puntano il dito contro la Procura di Milano. Su 1.545 denunce per maltrattamenti in famiglia presentate da donne nel 2012, le richieste di archiviazione da parte del Pubblico Ministero sono state 1032; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto! La situazione non è migliore per il reato di stalking, introdotto nel 2009: un reato in crescita se si considera che le denunce nel 2009 erano 430. Su 945 denunce fatte nel 2012, ne sono state archiviate 536.
«Nonostante il fatto che solo in una minoranza dei casi e dopo un doloroso percorso la donna arriva alla denuncia, più di metà delle denunce per maltrattamenti o stalking viene archiviata» denuncia l’avvocato Francesca Garisto, consulente Cadmi . «Spesso “de plano”, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di “conflittualità familiare” che i coniugi devono risolvere da soli. A volte la Procura, sottovalutando la credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti, non ritiene sufficiente un solo certificato medico o ritiene le denunce pretestuose. È come dare alla donna che subisce violenza, un’altra sberla, ancor più forte. In realtà. questi reati, per essere verificati e perseguiti, richiedono indagini, tempo, impiego di forze e quindi risorse economiche. Che, in tempi di crisi, vengono sempre più a mancare». Da considerare che spesso i maltrattamenti vanno avanti per anni, prima che le donne riescano a lasciarsi alle spalle queste situazioni angosciose. Affetto e senso di vergogna si mescolano alla paura di ritorsioni. Spesso chi maltratta tende ad isolare la vittima e la dipendenza può diventare anche economica. E poi la paura più grande di non essere creduta. E soprattutto la sfiducia nei confronti della giustizia che non protegge abbastanza. Così tra la denuncia e il processo passa un tempo infinito… «Le donne non credono che denunciare le metta in sicurezza: si sentono anzi in una situazione di maggior rischio dopo aver denunciato», fa notare l’avvocato Garisto. «Spesso denunciare serve solo a esacerbare gli aguzzini: i tempi processuali, per ottenere misure di protezione cautelare, sono lenti. C’è anche la scarsa applicazione di uno strumento semplice e accessibile: l’allontanamento immediato dalla casa del maltrattante. Molte donne sono così costrette a continuare a vivere sotto lo stesso tetto con il partner violento, anche dopo aver sporto denuncia, con tutti i rischi che ciò potrebbe comportare…».
di Cristina Tirinzoni