Partiamo dal titolo del suo libro, “Sognando parità”: ma quanto dobbiamo ancora aspettare?
«La parità uomo-donna rimane un traguardo lontanissimo: se tutto continuerà a muoversi al ritmo attuale, all’interno dei ministeri, ad esempio, sarà raggiunta solo nel 2037, nell’università nel 2138, nella magistratura nel 2425, e per raggiungere i vertici della diplomazia si dovrà aspettare fino al 2660. Lo scenario è arretrato, lo si vede nei numeri. Ci hanno superato quasi tutti. Gli altri paesi vanno avanti più velocemente del nostro».
Come è potuto accadere?
«La prima osservazione è che, secondo me, in Italia non c’è la percezione di quanto grave sia la situazione sul fronte delle donne. Manca una diffusa consapevolezza culturale su quanto sia importante per tutti, per la crescita individuale e collettiva, riequilibrare la partecipazione per le donne in tutti gli ambiti: da quello politico a quello lavorativo. Sarebbe una grande ricchezza per tutti. La Banca d’Italia ha documentato che se solo riuscissimo a portare la quota del lavoro femminile al 60%, come fissato dagli accordi europei di Lisbona, il Pil aumenterebbe del 7%.Oggi più che mai è importante valutare le situazioni da diversi punti di vista, avere visioni differenti è una ricchezza inestimabile. C’è di più. Le aziende che non scelgono le donne si stanno precludendo di avere i migliori talenti. Le ragazze infatti studiano di più e meglio (il 71% delle diplomate fa l’università contro il 60% dei maschi) e nella formazione postlaurea sono il 67,7 per cento degli iscritti alle scuole di specializzazione. Le donne più giovani vanno a teatro più dei loro coetanei (25,8 per cento contro 19,5 per cento), leggono più libri (il 64,4 per cento delle giovani donne contro il 41,3 per cento dei coetanei), visitano più musei e mostre (il 39,6 per cento contro il 30 per cento dei ragazzi) e così via. Insomma, diciamolo: le donne sono meglio preparate, più colte, più interessate, più istruite degli uomini».
Durante la sua ricerca cosa l’ha più scoraggiata?
«La violenza nei confronti delle donne, e non solo quella che viene compiuta in famiglia. Ma mi riferisco anche a quella pratica odiosa delle dimissioni in bianco, imposte dal datore di lavoro alle donne, costrette ad abbandonare “volontariamente” il lavoro dopo la nascita di un figlio. I dati ufficiali Istat sono inequivocabili: nel 2009 le dimissioni per maternità erano state 17.878, nel 2010 sono aumentate e sono arrivate a 19.017. Situazione particolarmente critica nel Mezzogiorno, dove pressoché la totalità delle interruzioni legate alla nascita di un figlio può ricondursi alle dimissioni forzate. Anche qui siamo in controtendenza: l’esperienza del Nord Europa ci dice invece che le donne che lavorano fanno più figli. Nel nostro paese, che ricordiamolo ha la più bassa natalità (1,30 figli per donna), nella cultura aziendale continua a persistere l’idea che la maternità sia un costo. Credo invece sia urgente affrontare il tema da un altro punto di vista: quanto costa all’organizzazione non scegliere una donna? Occorre cambiare set di mentalità e prevedere investimenti che aiutino la “conciliazione”».
Di pari opportunità si parla tanto, ma poi alla fine si fa poco…
«Sui diritti non c’è molto da dire: le donne li hanno ottenuti, con fatica ma li hanno ottenuti. Anche l’Europa ha avuto un suo ruolo nello spingere il nostro paese verso una democrazia più compiuta. Ma poi passare dal diritto alla sua realizzazione è un’operazione molto complessa perché le piccole o grandi discriminazioni nascono dalle ingiustizie piccole o grandi del quotidiano e qui le donne sono sole a far valere i propri diritti: nella retribuzione, nel riconoscimento di meriti e capacità, e nell’accesso a ruoli decisionali in politica e nelle imprese».
Quote rosa. Alla fine, nel novembre 2012, è arrivata la legge che impone di avere il 20% di donne nei Cda (gli organi direttivi delle aziende), quota che salirà al 30% nel 2015.
«La legge sulle presenze femminili nei cda voluta dall’Unione europea inizia a produrre i suoi effetti, le donne nei Cda delle società italiane quotate sono passate dal 4,9% all’11%: (anche se siamo ancora al di sotto della media europea, pari al 15,8 %). Ecco l’importanza di strumenti come le quote rosa!».
Solo imponendo la presenza si potrà ridurre l’attuale disequilibrio?
«Il tema delle quote genera sempre un dibattito, c’è chi rifiuta il trattamento da “specie protetta”. Io invece sono favorevole. Sono dolorosamente necessarie per avviare un processo virtuoso e per cambiare una situazione, fortemente modulata sulla presenza maschile, che altrimenti resterebbe immutata nel tempo. L’esperienza ci dice che non possiamo affidarci alle responsabilità individuali, soprattutto dei maschi. Ricordiamoci che dove avanza una donna, c’è un uomo che si deve fare da parte. In nessun Paese, neanche in quelli più avanzati, si è arrivati a una partecipazione femminile di qualche rilievo senza la previsione legislativa di quote obbligatorie. Si tratta di misure temporanee, che devono permettere di raggiungere quella “massa critica” del 30% di rappresentazione femminile senza la quale, ci dicono gli studi, è impossibile per le donne riuscire a influenzare le decisioni di un’organizzazione. Con le quote rose svolgiamo un’opera di educazione, si crea una cultura: chiedere in maniera esplicita di pensare a una donna nei cda, significa portare i maschi a considerare le donne e vederne le qualità. Dopo averlo fatto per obbligo, alcune volte, i manager si trovano poi a pensarci spontaneamente».
Fino a quando saranno indispensabili?
«Chi può dirlo? La quota finisce nel momento in cui si raggiunge la parità! L’aumentare la base di inclusione delle donne però non basta. Il passo successivo è supportarne la crescita e bisogna provare a valorizzare modelli di leadership diversi. La crisi potrebbe essere una buona occasione per tutte noi. C’è una capacità, nelle donne più che negli uomini, di trovare risposte nuove. A fronte di questa crisi di sistema, sembra chiaro che il management dominante ha fallito. E a procurare questa crisi, ricordiamolo, sono stati solo e unicamente uomini. La differenza femminile ovunque ha questa portata: allarga e cambia gli orizzonti. Oggi ci sono donne in posizioni di responsabilità che hanno sviluppato pratiche innovative, pur con tutti i vincoli, mostrando che le loro idee non sono impossibili da attuare: sono state realizzate, e con beneficio per chi lavora e per l’azienda. Hanno saputo usare il loro ruolo “di potere”, nel senso positivo di far accadere le cose, e lo fanno rispettando e valorizzando le persone».
C’è la speranza di un cambiamento, dunque?
«Oggi il dirigere è spesso ridotto a un esercizio autoritario del potere, che di solito le donne non condividono. Sentono, rispetto a questo, un’estraneità che facilmente le porta a chiamarsene fuori. Perché a noi donne – non dico tutte ma molte – non interessa contendere questo potere, ci interessa invece poter guidare l’azienda in un modo che riteniamo migliore, e possibile, costruito su una diversa concezione manageriale: flessibilità, condivisione, lavoro di squadra. Nella convinzione che non siano necessariamente incompatibili, che è possibile “fare il bene dell’azienda facendo il bene delle persone. Questo orientamento, dunque, più che una cultura di potere, esprime una cultura di governo. Che significa un orientamento a prendersi cura di tutte le parti in gioco. Cercando di mettere le persone in condizioni di lavorare meglio: si riformulano così modelli organizzativi ormai logori. Guardo con fiducia anche al terremoto provocato dalle elezioni: è uscito il Parlamento più giovane e con il maggiore numero di donne della storia repubblicana, secondo una prima stima saranno il 32 per cento alla Camera e il 30 per cento al Senato. E la politica è il luogo del potere per eccellenza perché è lì che si fanno le regole. Io non dispererei…».
Secondo lei quali sono le urgenze per l’“agenda delle donne”?
Le materie su cui intervenire sono moltissime, bisogna tornare alla carica col prossimo governo. Sicuramente mi piace la proposta della detassazione del lavoro femminile. Da dove si comincia non importa, purché si cominci. Puntando anche a incidere sulla cultura. Si comincia dunque dalla consapevolezza della scarsa valorizzazione e anche discriminazioni di cui le donne sono ancora oggetto. Lo dico soprattutto alle giovani generazioni che danno la parità per acquisita! Non pensate che non ci sia il maschilismo. Tenetene conto. Perché non basta essere brave. a casa, al lavoro, con gli amici, coi figli. Non basta essere più brave e più preparate degli uomini. Dobbiamo essere coscienti che per far valere il nostro merito, serve una forte dose di consapevolezza, di ciò che si muove dentro e fuori di noi, di ciò che ci aspetta. E tutto questo si può fare solo parlando e cercando insieme alle altre le soluzioni. Al contrario è inutile. Si comincia dalle donne. Diversamente saremo schiacciate. Arrivo così al cuore della questione, mettendo il dito in una ferita mai rimarginata. Ho sempre sentito parlare di soffitti di vetro, discriminazione, ma dall’interno delle aziende vedo che manca anche dell’altro. Manca spesso la solidarietà tra le donne, il fare rete tra di loro. Per sostenere e valorizzare le loro esperienze. Per crescere attraverso il confronto. L’isolamento ci indebolisce. Questa ora è la sfida più importante da portare avanti. Tutte insieme donne di ogni generazione, all’interno di qualsiasi ruolo ricoperto di potere o no: fare rete per davvero.
di Cristina Tirinzoni