Perde il suo tricolore, l’Italia, almeno sulla tavola. Secondo la rivista on line ilfattoalimentare.it, la pasta con “a pummarola ncoppa e un po’ di basilico”, orgoglio della dieta mediterranea, potrebbe non essere più di produzione totalmente nazionale e nel suo mix di grano duro annoverare anche chicchi di provenienza canadese, ucraina o statunitense. Da qui l’invito ai maggiori e più diffusi marchi italiani di precisare sulle etichette dei propri prodotti la “nazionalità” delle farine, quanto meno per onestà verso i consumatori. «Anche se l’uso di materie prime italiane – avverte Roberto La Pira, fondatore del portale ilfattoalimentare.it – non equivale di per sé a un attestato di qualità superiore. La bontà non è legata solo all’origine della materia prima, ma anche alla capacità di saperla trasformare». E così gli italiani guardano a ciò che mettono nel carrello della spesa sempre con più scettiscismo, specie dopo alcuni scandali alimentari – la carne di cavallo nelle lasagne surgelate, le mozzarelle blu, i frutti di bosco a rischio epatite – balzati alle cronache pochi mesi fa. In questo panorama di cibi poco tranquillizzanti, il marchio griffato “Made in Italy” sembrava una sicurezza (di bontà e salute): sparita questa, oggi la scelta per una maggior tutela ricade sui prodotti bio. Certamente più cari, (forse) più naturali, ma comunque aumentati sulle tavole italiane del 9% solo nel 2011, secondo le stime fornite dalla CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) e dai dati ISMEA (Istituto dei Servizi per il Mercato Alimentare). Ma, anche per il bio, acquistare la qualità non è così facile o scontato: può accadere infatti che si ricorra a materie prime non sempre ad hoc, che i processi di produzione non siano totalmente a norma e le filiere di provenienza siano estere, o che l’affermazione massiccia del cibo italiano anche in Europa abbia incrementato episodi di contraffazione e imitazione del nostro brand. Specie per quei prodotti tipicamente italiani: i sughi di pomodoro e le conserve, l’olio extra-vergine di oliva, i formaggi in genere, la pizza, i vini, il miele e perfino alcuni dolci come il panettone e la colomba pasquale nei quali le materie prime più facilmente possono arrivare da lontano. Ma per l’ignaro acquirente e compratore è tutto in regola: basta che l’ultima parte della lavorazione del prodotto sia fatta in casa, per assicurare all’alimento il passaporto italiano.
Dunque, come non cadere in trappola e fare una scelta consapevole e attenta degli alimenti che mangiamo? Leggere bene l’etichetta, in questo percorso a ostacoli contro il “buon” gusto dei cibi, sembra essere la via più sicura, se non l’unica. «Secondo la normativa entrata in vigore il 1° Luglio 2010 – spiega il professor Giacinto Miggiano, direttore del Centro Nutrizione Umana dell’Università Cattolica di Roma – il prodotto deve avere il logo europeo che ne attesta la provenienza da uno dei paesi appartenenti alla Comunità UE, e riportare le seguenti indicazioni: il nome dell’organismo di controllo autorizzato e il suo codice, preceduto dalla sigla IT; il codice dell’azienda controllata; il numero di autorizzazione (sia per i prodotti agricoli freschi che trasformati); la dicitura “Organismo di controllo autorizzato con D.M. Mi.R.A.A.F. (con numero e data) in applicazione del Reg. CEE n.2092/91”». Se manca l’etichetta, la certificazione di bontà per il consumatore, meglio diffidare. O fare molta più attenzione, specie per alcuni prodotti come carni diverse da quella bovina, salumi, succhi di frutta per i quali non c’è ancora, in Italia, un’etichetta di origine che attesti un rigoroso controllo sulla sicurezza e sulla qualità dell’alimento. Sembra difficile assicurarsi, dunque, solo cibi di provenienza o produzione al 100% nostrana. «Una garanzia in più – conclude il nutrizionista – è data da prodotti tutelati da marchi di denominazione controllata (DOC o DOP) o da indicazioni di origine protetta che devono obbligatoriamente seguire un preciso e disciplinato iter di produzione per ottenere un “patentino” anche per le materie prime».
L’etichetta sembra essere lo strumento salvaguardia-qualità, almeno fino a che non si farà uso in tutte le grandi catene o i negozi alimentari di Heracles II, una sorta di cane da tartufo elettronico in grado di smascherare in un tempo rapidissimo – due minuti – i cibi truffa. Il gascromatografo (così si chiama lo strumento dall’olfatto sopraffino) annusando gli alimenti, pare in grado di analizzare il profilo aromatico e elaborare un grafico con le caratteristiche del prodotto che diviene la “carta di identità” identificativa della provenienza e del tipo di materie prime che lo compongono. Il grafico ottenuto da Heracles, dovrà poi essere messo a confronto con una banca dati e se tra i due profili (quello annusato e quello registrato) non vi è perfetta corrispondenza, significa che qualcosa all’interno di quell’alimento non va e che dovrà essere sottoposto a ulteriori indagini e ispezioni. Chissà se in futuro, grazie a un naso elettronico da tartufo, la nostra tavola potrà finalmente essere buona e sicura…
di Francesca Morelli