«Concedetemi una provocazione. I bulli non esistono. Siamo noi adulti che creiamo le condizioni perché i bambini e i ragazzi possano trasformarsi in bulli. Per questo dico: è ora di dare un messaggio forte. E’ ora che gli adulti si prendano le loro responsabilità che troppo spesso vengono oggi sottovalutate. Cominciamo col guardarci dentro di noi: genitori, insegnanti, politici, economisti, istituzioni, mass media e chiediamoci quali messaggi abbiamo per i nostri figli, gli adolescenti, i giovani di oggi. Che cosa proponiamo loro, quale futuro, quale società?».
Parole chiare quelle di Silvia Vegetti Finzi, psicologa clinica (è stata a lungo docente di Psicologia dinamica presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pavia) e scrittrice (tra i suoi ultimi libri: Una bambina senza stella. Le risorse segrete dell’infanzia per superare le difficoltà della vita, edito da Rizzoli, L’età incerta: i nuovi adolescenti, Mondadori).
E proprio di Bullismo. Il buon uso dell’aggressività nell’adolescenza, Silvia Vegetti Finzi parlerà sabato 17 settembre a Sassuolo, nell’ambito del Festival di filosofia dedicato quest’anno al tema Agonismo.
Il bullismo può essere spiegato come una forma perversa della competizione esasperata della società di oggi?
«Per potersi confrontare con l’altro occorre incontrarlo. Quando la competizione è percepita come confronto positivo con se stessi e con gli altri, con cui confrontarsi e misurare le proprie prestazioni, diventa un potente strumento capace di educare. Lo sport, in questo senso può assumere un ruolo rilevante nella vita dei giovani: insegna ad affrontare la vita, a relazionarsi con gli altri, ad accettare la sconfitta e a superare gli insuccessi; insegna lo spirito di sacrificio. Nel mondo dello sport, la competizione è dura: per raggiungere un buon risultato di squadra ci si deve anche aiutare gli uni con li altri. Nel bullismo c’è invece soltanto prevaricazione. Il bullo sa affermare se stesso nel gruppo soltanto con atti di prepotenza e sopraffazione reiterati nel tempo, con la consapevolezza di fare del male o arrecare un danno a qualcun altro ritenuto più debole o incapace di difendersi».
Occorre fare una riflessione anche sul bullismo al femminile, che negli ultimi tempi sta degenerando.
«Violenza e bullismo al femminile crescono sempre di più, raramente però assume la forma di aggressioni fisiche, quanto piuttosto di una “violenza psicologica”. Le ragazze hanno un modo tutto loro per ferire le compagne meno visibile, più subdolo, ma altrettanto pericoloso e devastante. Emarginano la compagna più debole, la calunniano, la dileggiano, la fanno sentire invisibile, escludendola e isolandola. Tutto ciò ha un impatto molto negativo in questa fase delicata di crescita, quando l’amicizia è tutto ciò che conta per un’adolescente, e la sua autostima dipende dal modo in cui si è accolti dai coetanei. “Le parole fanno più male delle botte”, scrisse nella sua lettera d’addio prima di buttarsi dal balcone di casa Carolina Picchio (la studentessa di 15 anni, vittima del cyberbullismo, ndr)».
Contro il cyberbullismo, sta per arrivare alla Camera la proposta di legge (prima firmataria la senatrice Elena Ferrara, ex insegnante di musica di Carolina Picchio), già approvata all’unanimità dal Senato il 20 maggio 2015. Ma il testo modificato dalle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera in un’ottica sanzionatoria (fino a sei anni di carcere) ha già suscitato forti preoccupazioni. Cosa ne pensa?
«Spero che nell’ultima fase del dibattito si riesca ad affinare il testo, che con le modifiche introdotte dalle Comissioni, mi pare abbia un po’ perso per strada l’obiettivo che era finalizzato nel suo disegno originario, cioè a prevenire i fenomeni del bullismo e cyberbullismo con azioni di carattere formativo ed educativo, soprattutto attraverso le scuole e i docenti. Sommessamente dico: non abbiamo bisogno di sanzioni che sono già previste dal codice penale, bensì di misure di sostegno interventi educativi e percorsi riparatori e di inclusione, per poter recuperare i soggetti che sono in età evolutiva. Più si affronta la questione, più ci si rende conto che approcci soltanto punitivi o sanzionatori risultano poco efficaci, in quanto lasciano il bullo in una condizione di esclusione e di emarginazione, senza offrirgli strumenti necessari per mettere in atto un cambiamento positivo. Sono convinta che lo strumento più potente sia la prevenzione Attraverso interventi educativi che servano a stimolare l’empatia, l’autostima, l’assertività, la gestione della rabbia. Per riuscire a modificare i comportamenti inadeguati non solo bullo ma anche della vittima e del gruppo-spettatore».
Ma perché il bullismo è entrato da protagonista nella cronaca dei nostri giorni? Da dove arriva?
«Non si diventa violenti o bulli all’improvviso. I motivi che spingono a diventarlo sono molteplici: sicuramente un forte bisogno di potere e di autoaffermazione, il voler essere ammirati all’interno del gruppo degli amici. Il bullo ha un disagio, perché un ragazzo che ha bisogno di umiliare e atterrire un suo compagno esprime un disagio e deve essere aiutato. E’ bene quindi che si parli anche della fragilità del “bullo”. Alcuni si fanno vedere molto coraggiosi davanti ai loro amici, quando poi si approfondisce si scopre che sono insicuri e che il loro timore più grande è quello di apparire come un “perdente”. Il bullo si accanisce ripetutamente contro chi è percepito come diverso: può essere l’omosessuale, lo straniero, il disabile, contro chi è grasso contro chi è secchione, contro chi è timido. Come ci mostra la psicoanalisi, in realtà a livello più profondo per il bullo, la vittima, attaccata con tanta determinazione, rappresenta la parte debole di sé, intollerabile, da umiliare ed eliminare. Detto questo, è necessario ricercare altrove le responsabilità, orientare il nostro sguardo ai contesti urbani e sociali nei quali questi adolescenti vivono. Il bullismo si sconfigge eliminando le condizioni che lo favoriscono».
Quali sono le vere cause?
«Il bullismo è anche figlio di un contesto sociale e culturale più ampio, basato sullo scontro piuttosto che sul confronto, in cui il più forte, il più prepotente, è meglio degli altri, in cui vige la distinzione dell’umanità tra vincenti e perdenti, in cui spadroneggiano arroganza, cinismo, corruzione, il tutto è possibile. Vengono i brividi ma noi siamo dentro questo scenario. In una cultura fondata sui (dis)valori della sopraffazione, dell’arroganza, della furbizia a cosa dovrebbero credere i ragazzi di oggi? E’ da qui che si può cercare di partire; leggendo questi gesti devianti come sintomi di una sofferenza sociale allargata, che riguarda molte sfere del nostro vivere sociale. Non facciamo gli ipocriti a sorprenderci. L’intera società degli adulti deve interrogarsi su che tipo di modello propone».
Ancora una volta il disagio dei bambini e degli adolescenti chiama in causa le responsabilità educative degli adulti?
«Gli adulti stanno facendo molto per evitare a chi sta crescendo di incontrare il dolore, la delusione, la fatica di vivere. Certo, tutto questo viene anche fatto per amore, ma finisce per non aiutare i ragazzi che non sanno più accettare la frustrazione o linsuccesso perché nessuno più indica loro questa via difficile: la via della fatica, della sconfitta, della frustrazione con cui si deve fare i conti e confrontarsi. I genitori tendono a proteggere troppo i propri figli, e a giustificarli anche quando mettono in atto comportamenti sbagliati. Penso per esempio a quei papà e mamme che addirittura minacciano i professori quando mettono note di richiamo ai loro ragazzi. Altrettanto deleterio è quando trasmettono loro grandi aspettative, spingendoli a voler primeggiare a tutti i costi sugli altri, piuttosto che a realizzarsi. Dobbiamo credere nelle potenzialità dei ragazzi, incoraggiarli sin da piccoli a sviluppare le loro risorse. I figli devono sentirsi amati dai genitori per quello che sono, devono però anche trovare nell’ambiente domestico norme di comportamento. Serve una vigilanza continua fatta di ascolto. E poi i genitori devono fare rete con la scuola, non accanirsi contro questa».
di Cristina Tirinzoni