Il 92% di donne con un tumore al seno HER2+ preferisce sottoporsi a chemioterapia per via sottocutanea piuttosto che endovenosa. Lo rivela una indagine condotta da Onda, Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna, con il contributo incondizionato di Roche, su un campione di 101 pazienti operate e trattate presso uno degli 11 Centri di Senologia selezionati in tutta Italia e aderenti al progetto. La preferenza è dovuta al minore impatto sulle abitudini e la qualità di vita che la terapia sottocute offre rispetto all’endovena. Infatti, nel 39% dei casi, le donne che seguono questo regime di trattamento si recano in autonomia al centro per l’esecuzione della terapia, con un sensibile risparmio di tempo terapeutico, 2-3 ore circa in day hospital (la terapia dura 12 minuti), anziché mediamente le 5 ore, fino a un massimo di 10 ore richiesto dall’endovena, la cui durata richiede 150 minuti circa. Valore aggiunto, la terapia sottocute non implica grosse rinunce dal punto di vista della vita sociale, familiare e lavorativa (solo il 20% di donne ha ridotto i propri impegni e occupazioni, contro oltre il 43% di quelle sottoposte a chemio endovenosa). «Soprattutto per le donne che devono gestire i diversi ruoli di madre, casalinga e lavoratrice – dichiara Francesca Merzagora, Presidente Onda – è importante avere a disposizione un’innovazione terapeutica che possa permettere di fare meno rinunce e al tempo stesso essere efficace». Ma c’è di più: «Le nuove formulazioni – aggiunge Daniele Generali, Direttore UO Multidisciplinare di Patologia Mammaria dell’ASST di Cremona – portano benefici anche sul piano economico-organizzativo e della sicurezza clinica in tutte le fasi del percorso diagnostico-terapeutico». Il progetto SCuBA (SubCutaneous Benefit Analysis), realizzato da Bip (Business Integration Partners), con il sostegno di Roche, attesterebbe infatti un risparmio per il Sistema Sanitario Nazionale di circa 9 milioni di euro, associato all’utilizzo della terapia sottocute, che potrebbe arrivare anche a 15 milioni, aumentando la quota di somministrazione alla massima percentuali delle pazienti, pari a circa l’84% del totale. Inoltre si avrebbe una riduzione del rischio clinico del 70%, per la diminuzione di errori di calcolo del dosaggio e/o nella preparazione e gestione delle sacche e l’azzeramento dei possibili effetti avversi da infusione, tra cui le occlusioni dell’accesso venoso e le infezioni del sito di accesso.
Francesca Morelli